S. Messa Crismale – 27 marzo 2024 “Trasmettere la fede”

27-03-2024

Cari presbiteri, diaconi, religiosi e religiose, consacrati, carissimi tutti del popolo di Dio,

abbiamo ascoltato Paolo che si rivolge a Timoteo e lo saluta come “figlio carissimo” e ringrazia Dio per il legame spirituale, affettivo e anche sacramentale, che lega l’apostolo al suo discepolo e successore. Poi Paolo aggiunge: “…sento la nostalgia di rivederti per essere pieno di gioia. Mi ricordo infatti della tua schietta fede, che ebbero anche tua nonna Lòide e tua madre Eunìce, e che ora, ne sono certo, è anche in te”.

La trasmissione della fede in famiglia

Paolo non rivendica la sua azione nella nascita e nella crescita della fede schietta di Timoteo. Riconosce che questa è stata trasmessa in famiglia, passando dalla nonna, alla madre, a lui. E questo dono avvenuto per trasmissione, non con un incontro improvviso col Risorto come per Paolo, ma con una comunanza di vita, lungo il cammino e la storia di una famiglia credente, con protagoniste le donne, ci colpisce.

Molti di noi, più avanti negli anni, ricordano che la loro fede e la loro vocazione hanno avuto una radice familiare. Come nel racconto sull’infanzia del profeta Samuele, dove prima della chiamata del ragazzo c’è il dono della fecondità alla madre Anna e la sua risposta al Signore con una dedicazione del fanciullo che segnerà il suo rapporto materno col figlio e lo preparerà a unarisposta vocazionale incondizionata, fino alla consacrazione di sé. Si potrebbe quasi dire che in molti racconti biblici e in diversi racconti di vocazione di tanti di noi, il Signore ha chiamato una generazione attraverso quella che l’ha preceduta, una personaattraverso coloro che lo amavano di più per motivi ovvi naturali: i genitori, i parenti. Anche la vocazione e la vita di Maria ha preparato la disponibilità del Figlio a compiere le cose del Padre(Lc 2,49), forse anche al di là della sua volontà esplicita di madre.

Questo ci fa dire che la trasmissione della fede attraverso il legame familiare è una via fondamentale dell’evangelizzazione e della nascita delle vocazioni. Ma nell’attuale situazione è ancora vero? La trasmissione delle fede attraverso le generazioni è ancora un luogo antropologico fecondo su cui investire?

Comunicare tra generazioni

Nei tanti dialoghi provocati dal cammino sinodale, che anche noi come altre chiese abbiamo portato avanti col clero e con i laici, con i religiosi, con le associazioni e i Consigli, seppure qua e là stentatamente, questo problema è emerso più volte. Il dialogo e la comunicazione negli ambienti ecclesiali tra generazioni, è difficile. I giovani si allontanano dalle comunità, come sono autonomi dalle idee e dalle abitudini dei familiari, pur avendo ancora bisogno del supporto dei genitori fino alla giovinezzainoltrata. Il crollo dele presenze nel dopo cresima è un problema dilagante.

Ne abbiamo parlato negli incontri sinodali dello scorso anno sia col clero che con il Consiglio pastorale. E ci siamo detti che dobbiamo assolutamente trovare qualche modalità per riallacciare i legami fraterni e paterni che permettano di trasmettere ai giovani e ai lontani la nostra fede e la nostra vocazione di battezzati al servizio del vangelo, del Signore e della Chiesa.

Legami fraterni e paterni: ci siamo detti (o forse anche “materni”, vedi il caso di Timoteo). Legami che rimandano alla trasmissione familiare e generazionale della fede. Ma in che senso intenderli?

Prima, infatti, di individuare altre prassi pastorali o metodologieper tornare ad essere attraenti per gli adolescenti e i giovani, per i lontani e gli allontanati, che pure dovranno essere pensati e proposti, dobbiamo riflettere su quello che ci siamo detti in quegli incontri sinodali.

Da dove partire per rigenerare tra noi questi legami? E soprattutto, intorno a chi?

Appartenere a Cristo

Noi siamo tutti convinti che sia un fatto non secondario, ma sostanziale per il cristianesimo, che non si è cristiani maturi se non c’è una chiara appartenenza, spirito anima e corpo, mente cuore e volontà, coscienza e convinzione, a Gesù Cristo. Ma possiamo arrivarci e diventare credenti maturi, solo se abbandoniamo le appartenenze parziali per mettere al primo posto l’appartenenza personale e comunitaria cioè ecclesiale, a Cristo al Cristocrocifisso e risorto per noi, che ci ha generato col suo sangueprezioso.

Una crescita questa che è difficile, come un nuovo parto. Lo dice Paolo alle sue comunità: “Figli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché Cristo non sia formato in voi!” (Gal 4,19).Perché è vero che si è sempre generati da qualcuno, non si nasce da soli. Ma col passare del tempo e con la crescita della coscienza credente, ci si deve staccare dalle persone, dalle comunità particolari, dai movimenti, dai gruppi, che pure ci hanno dato tanto e lo dobbiamo riconosce, con gratitudine.  È il passaggio che Paolo chiede ai Corinzi (cfr. 1Cor 1). È il passaggio che Gesù chiede ai suoi parenti che pretendono di avere ancora qualche titolo per intervenire a orientare la sua missione (Mt 12,46-50): sono altri sua madre e i suoi fratelli; sono coloro che stanno intorno a Lui, ascoltano la sua Parola, la accolgono con convinzione, e la mettono in pratica, per evitare di costruire sulla sabbia.

Sembra una contraddizione o un paradosso: abbiamo bisogno di qualcuno che ci trasmetta la fede, poi è necessario un distacco, come per i ragazzi che quando crescono hanno bisogno di diventare autonomi e di essere lasciati andare. Ancora Paolo, ai Corinzi, contrappone le appartenenze parziali: io sono di Paolo,io sono di Apollo, io di Cefa, allunica appartenenza utile, matura, promuovente, quella a Cristo: “e io di Cristo! (Cor 1,12)

Anche noi preti, religiosi, consacrati, non solo i laici, dobbiamo riconoscere che la nostra vocazione è stata condivisa con unafamiglia, con una parrocchia, con dei consacrati, con un movimento o una associazione, a volte con un personaggio spirituale, un carismatico… ma dobbiamo riaffermare che per realizzare in pieno la nostra vocazione, dobbiamo fare un percorso di superamento delle appartenenze affettive e parziali, per arrivare a dire con Paolo: Non vivo più io, ma Cristo vive in me”. (Gal2,19s)

Dalla identificazione all’identità, in Cristo

Se però consideriamo questo passaggio dal punto di vista pedagogico, dobbiamo fare nostro tutto questo cammino umano e spirituale. Cioè c’è una fase iniziale, infantile nel senso buono del termine, quando la fede nasce e viene trasmessa per la prima volta, che necessita di figure o gruppi o meglio comunità parrocchiali o movimenti che ti permettono di identificarti con gli altri che stanno camminando. Ti identifichi con coloro che ti generano, perché ti permettono di fare scelte e cambiare alcuni atteggiamenti, in linea col Vangelo, di aprirti alla preghiera e allascoperta personale della Parola di Dio, di vivere i sacramenti come incontri con il Signore.

Poi però ci deve essere una fase nuova dove la bellezza delle cose scoperte, la figura di Gesù sempre più centrale, la carità come il vero e unico volto di Dio, i doni dello Spirito all’opera dentro di sé che conducono su strade nuove di generosità, di servizio, di perdono e riconciliazione, di purificazione dalle passioni e dai vizi,– tutto questo chiede di non fare più le cose perché le fanno gli altri, perché ho o avrò l’approvazione del gruppo, per sentirmi simile a quelli che ammiro, ma solo per essere di Cristo, per restare con Cristo, per vivere in Cristo.  

L’appartenenza alla Chiesa di Cristo

E cè un secondo passaggio parallelo, ma oggi non scontato, che è l’appartenenza alla Chiesa di Cristo, che non è nostra, non è un’organizzazione sociale, ma è la Sposa di Cristo Sposo, è il suo Corpo dove scorre il suo sangue prezioso, e dove i credenti maturi sono con-cordi e un-animi, hanno un cuore solo e uno spirito solo (Fil 2,1-3; At 4,32). Dove cioè pur vedendo i peccati dei ministri e dei fratelli a tutti i livelli della famiglia ecclesiale, nonci si lascia prendere dalle logiche e dalle dinamiche del mondo, sotto le quali Satana si nasconde furbescamente. Ma si vive da fratelli e sorelle, sempre, e ci si ridona la pace e il perdono a ogni eucaristia.

In concreto, abbiamo un bisogno fondamentale di essere parte attiva di una Chiesa particolare, per essere nella Chiesa (LG 23; CD 21). E non è solo questione di atteggiamento affettivo o emotivo, cioè una simpatia per la nostra Chiesa di Ravenna Cervia, che ha attraversato i secoli e ha superato tante tempeste e qualche carestia, ma è ancora viva!

Abbiamo un bisogno fondamentale di appartenere non genericamente alla Chiesa universale, ma concretamente alla “nostra” chiesa particolare che ci ha nutrito con i sacramenti, il catechismo e ci nutre con l’accoglienza e la vicinanza di tanti credenti, che ci ha anche ostacolato a volte con i suoi peccati e i suoi scandali, ma è stata o è ora nostra madre. E da lei siamo fatti fratelli e sorelle, come ripetiamo nella liturgia. Certo senza dimenticare che ogni Chiesa locale è in comunione con le altre Chiese, e noi in modo speciale con la Chiesa peruviana e con la parrocchia di Gesù misericordioso dove è parroco don Stefano Morini.

Quindi abbandoniamo critiche, malignità, divisioni tra sottogruppi che si muovono per simpatie o per appartenenze politiche; o per inutili contrapposizioni tra progressisti e tradizionalistidivisioni che consideriamopeccati contro la fraternità ecclesiale”, che spengono – attenzione– l’amore, la gioia, e soprattutto lefficacia missionaria della testimonianza!

Una nuova paternità e maternità, per trasmettere il vangelo

Invece siamo chiamati a comportarci da adulti, corresponsabili di tutto quello che succede o non succede in casa nostra, in famiglia. Con una nuova paternità e maternità che si fa carico di sostenere i deboli e i fragili, di correggere i peccatori e i fratelli che si perdono, che punta a far crescere tutti nell’amore, nellamicizia, nella disponibilità al servizio. Come una madre amorevole che si prende cura dei suoi figli sia buoni che ribelli, sia coerenti che trasgressori, non ci scandalizziamo di nessuno dei problemi e delle situazioni difficili che alcuni fratelli o sorelle stanno vivendo,anche delle condizioni di irregolarità e di disorientamento moraleo di orientamento affettivo e sessuale inaspettato.

O si ama la Chiesa fatta dei fratelli che si vedono, qualsiasi volto abbiano, o non si può dire che si ama Dio che non si vede (1 Gv4,20). O si ama la Chiesa con questo Papa, che è una grazia per la sua capacità profetica e rinnovatrice, come sono stati una graziaBenedetto XVI, Giovanni Paolo II, Paolo VI e Giovanni XXIII… o non si ama il Corpo di Cristo. Chi continuasse a dividere la Chiesa sulle appartenenze politiche o a gruppuscoli progressisti o conservatori, si assume una grossa responsabilità, perché una famiglia poco fraterna, sarà anche una famiglia non materna e paterna, e non potrà trasmettere il Vangelo della Carità, dell’amoree di conseguenza non riuscirà a coinvolgere i lontani, le giovani generazioni, i più emarginati.

Insomma, si trasmette il Vangelo se si scopre una nuova fraternità e una nuova paternità e maternità intorno a Gesù Cristo e allaChiesa sua Sposa, madre e maestra dellumanità.  

I carismi a servizio dell’edificazione della Chiesa

Questo permette anche di valorizzare i carismi, sia personali che delle comunità o della vita consacrata, però relativizzandoli: non si appartiene prima al proprio gruppo o alla comunità poi alla Chiesa di Cristo, ma viceversa. Solo i battezzati credenti ricevono i carismi, che hanno senso solo se sono messi a servizio della edificazione della Chiesa. E, come ci insegnano gli istituti storici di vita consacrata, essi sono a servizio della Chiesa tutta in ogni parte del mondo e ad ogni latitudine, della chiesa cattolica, nel vero senso del termine. Non ci possono essere dei doni di grazia, particolari, miracolosi o pretesi tali, che dividono, scandalizzano, esaltano qualcuno e allontanano gli altri.

Fraternità universale, cioè cattolica

Con l’enciclica “Fratelli tutti (cfr. n. 8) inoltre, papa Francesco ha insistito su un ulteriore passaggio in questo cammino verso la maturità cristiana, che spetta sia ai laici battezzati, sia soprattutto al clero e ai consacrati: la fraternità si deve allargare anche ai lontani, ai non credenti in Cristo, agli uomini e donne che praticano altre religioni. Non possiamo considerarli fratelli solo dopo che avranno lasciato la loro tradizione, i loro linguaggi religiosi o profani e dopo averli ammessi al catecumenato o a un cammino di ricostruzione della vita cristiana abbandonata Non possono essere considerati fratelli, solo dopo che sarannofinalmente dei nostri”!

Sono già fratelli in senso vero, anche i nemici, i credenti negliidoli antichi o attuali, anche i neopagani. Come il figlio prodigo che spreca tutti i doni del Padre in una vita dissoluta, ma rimane fratello, perché è la paternità di Dio che decide chi sono i fratelli, non le nostre definizioni e appartenenze, nemmeno i meriti o i demeriti di ciascuno. Nemmeno i delitti e i peccati fanno scomparire la fratellanza.

La missione è la nostra gioia

Trasmettere il vangelo di Gesù ai giovani, ai lontani, agli atei, ai nemici… è la vocazione della Chiesa di oggi e di sempre! È la nostra missione e ciò che gioia alla nostra vita: perché chi genera alla fede e crea fraternità, trova la sua gioia; nel generare èla nostra gioia.

E alla domanda ripetuta nei gruppi sinodali: Come fare? Come agganciare i lontani? Come non perdere i giovani? Come trovare nuovi linguaggi? Risponde il vangelo: lo Spirito ci darà parole e sapienza (Mc 13,11).

Del resto, non c’è davanti a noi una schiera di testimoni, di santi, di martiri che si sono lasciati guidare dallo Spirito e hanno trovatoparole e azioni giuste in condizioni terribili o apparentemente impossibili?

Certo tutte le capacità, la creatività pastorale, le esperienze e le forze che abbiamo, dovranno essere spese, ma dobbiamo confidare che i frutti verranno dall’opera della grazia di Dio che sarà sempre con i discepoli missionari (1Cor 15, 10s).

Facciamo dunque nostro l’augurio di Paolo a Timoteo: “…ti ricordo di ravvivare il dono di Dio, che è in te mediante l’imposizione delle mie mani. Dio, infatti, non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza. Non vergognarti dunque di dare testimonianza al Signore nostro” (2Tm 1,6-8).

+Lorenzo, arcivescovo

 

(Foto Massimo Fiorentini)