S. Messa Crismale – 18 aprile 2019: “Seguire lo stile di vita di Gesù …da ricco che era si fece povero”

18-04-2019

Lercaro, il Concilio e la Ecclesia pauperum

Nel corso della 35° Congregazione Generale del Concilio Vaticano II, il 6 dicembre 1962, il Card. Giacomo Lercaro, Arcivescovo di Bologna, e già nostro Arcivescovo, fece un intervento rimasto famoso sulla “Ecclesia pauperum”.

Il Cardinale esordì dicendo che, se pure altri avevano già chiesto d’inserire fra le priorità dei temi da trattare quello dell’evangelizzazione dei poveri, egli intendeva proporre qualcosa di più: «Rispetto a quest’ora dell’umanità e a questo grado di sviluppo della coscienza cristiana, deve essere il concilio della Chiesa, particolarmente e soprattutto la Chiesa dei poveri». E ancora: «Questa è l’ora dei poveri, dei milioni di poveri che sono su tutta la terra, questa è l’ora del mistero della Chiesa madre dei poveri, questa è l’ora del mistero di Cristo soprattutto nel povero». E dal «mistero di Cristo nei poveri» nasce il dovere dell’annunzio dell’evangelo ai poveri.

Questo intervento, che suscitò grande impressione, non fu di fatto recepito in tutta la sua ampiezza. La redazione, però, del paragrafo terzo di Lumen Gentium n. 8, metterà a tema il rapporto tra Chiesa e povertà.

“Come Cristo ha compiuto la redenzione – dice L.G. 8 – attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa è chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza. Rassomigliare a Cristo è la norma suprema della Chiesa. Questa, dunque, è la prima forma di rassomiglianza: seguire lo stile di vita di Gesù.”

E ancora: “Gesù Cristo «che era di condizione divina… spogliò se stesso, prendendo la condizione di schiavo» (Fil 2,6-7) e per noi «da ricco che era si fece povero » (2Cor 8,9): così anche la Chiesa, quantunque per compiere la sua missione abbia bisogno di mezzi umani, non è costituita per cercare la gloria terrena, bensì per diffondere, anche col suo esempio, l’umiltà e l’abnegazione.”

Si tratta dunque di un’auto-spoliazione: Gesù si fa povero. Anche della Chiesa deve potersi dire così. Per compiere la sua missione essa ha certo bisogno di mezzi umani, ma non è su questi che deve riporre la sua fiducia. Deve, al contrario, sentirsene libera, spogliandosi, come dice Papa Francesco: «Qualcuno dirà: “Ma di che cosa deve spogliarsi la Chiesa?”. Deve spogliarsi oggi di un pericolo gravissimo, che minaccia ogni persona nella Chiesa, tutti: il pericolo della mondanità. Il cristiano non può convivere con lo spirito del mondo. La mondanità che ci porta alla vanità, alla prepotenza, all’orgoglio. E questo è un idolo, non è Dio. È un idolo! E l’idolatria è il peccato più forte». (Assisi il 4 ottobre 2013).

Infine, sempre in LG, si dice che non basta essere “una Chiesa povera”, ma occorre anche l’agire, diventare cioè “una Chiesa per i poveri”. Continua infatti LG 8c:

“Come Cristo infatti è stato inviato dal Padre « ad annunciare la buona novella ai poveri, a guarire quei che hanno il cuore contrito » (Lc 4,18), « a cercare e salvare ciò che era perduto» (Lc 19,10), così pure la Chiesa circonda d’affettuosa cura quanti sono afflitti dalla umana debolezza, anzi riconosce nei poveri e nei sofferenti l’immagine del suo fondatore, povero e sofferente, si fa premura di sollevarne l’indigenza e in loro cerca di servire il Cristo.”

 

Una Chiesa povera, per i poveri

Con queste affermazioni L.G. ha dato una risposta importante alla prima istanza del Card. Lercaro, quella di fondare “cristologicamente” il legame Chiesa–povertà (non sociologicamente o con riferimenti alle ideologie correnti).

Dalla proposta del Card. Lercaro, dal testo della Costituzione conciliare sulla Chiesa, fino alle recenti parole di Papa Francesco, appare chiaro che qui non si tratta solo di uno dei consigli evangelici che permettono ai consacrati e ai ministri ordinati (vescovi, presbiteri, diaconi) di raggiungere meglio la perfezione evangelica cui tende il proprio stato di vita, a differenza dei fedeli laici, più compromessi con i beni materiali ed economici.

Si tratta del “volto stesso della Chiesa” di fronte al mondo e alla mentalità mondana. Si tratta di non smentire con i fatti l’annuncio del vangelo, che ha al centro il Signore Gesù, Figlio di Dio e figlio dell’uomo, che si è fatto povero fino a spogliarsi della sua stessa vita, per noi, per la salvezza dell’umanità.

Si tratta di non mettere il servizio ai poveri, ai piccoli e ai sofferenti sullo stesso piano di tutte le altre azioni, come fosse un’attività pastorale opzionale. Perché in ciascuno dei poveri e dei piccoli si deve riconoscere l’immagine del nostro Fondatore, povero e sofferente. In loro si serve Cristo stesso, veramente e realmente presente. Le parole di Gesù circa il giudizio finale in Matteo, sono decisive e drammatiche al tempo stesso: “…ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e non mi avete dato da bere; ero forestiero e non mi avete ospitato, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato. Anch’essi allora risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo visto affamato o assetato o forestiero o nudo o malato o in carcere e non ti abbiamo assistito? Ma egli risponderà: In verità vi dico: ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l’avete fatto a me. E se ne andranno, questi al supplizio eterno, e i giusti alla vita eterna” (Mt 25,43-46).

“Ogni volta che non l’avete fatto a uno dei miei fratelli più piccoli, non l’avete fatto a me”: e come è possibile mettere tutta una Chiesa in questo atteggiamento verso i piccoli e i poveri, se prima non si è condivisa personalmente l’esperienza delle povertà che piagano la carne dei poveri, opprimono e umiliano la loro dignità, mettono forti dubbi nel Dio Padre provvidente?  Anche il Cristo ha scelto di perfezionare la sua incarnazione passando attraverso la sofferenza per essere davvero simile in tutto a noi, suoi fratelli (Ebr 5,7-9). Una Chiesa che non sa distaccarsi dalle cose materiali, non è libera per seguire il Signore con tutto il cuore, l’anima e le forze. Una Chiesa che non è povera non saprà portare il Vangelo ai poveri. Dei poveri continuerà ad avere paura; dai poveri si difenderà, forse non con i muri e il filo spinato, ma con le porte chiuse, con la freddezza e il rifiuto dell’ accoglienza, dell’incontro, del dialogo, della condivisione dei beni indispensabili.

Ricordiamo bene le parole di Gesù dopo il rifiuto del giovane ricco che se ne andò triste, poiché aveva molte ricchezze: «In verità vi dico: difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli. Ve lo ripeto: è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli».  A queste parole i discepoli rimasero costernati e chiesero: «Chi si potrà dunque salvare?». E Gesù, fissando su di loro lo sguardo, disse: «Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile» (cfr. Mt 19, 16-30).

Quanto è difficile che una comunità cristiana ricca sia in grado di annunciare il Regno di Dio e di favorire la conversione e la fede! Certo sappiamo che l’impresa di diventare “poveri in spirito”, e di condividere concretamente le ricchezze, di superare le paure del diverso, dello straniero, del rifugiato, del migrante “economico”, del rom, del pregiudicato…; della massa di affamati e impoveriti del sud del mondo, non è impresa per nulla facile, forse impossibile per i singoli. Ma Gesù fissando lo sguardo su di noi suoi discepoli ci dice anche oggi: impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile!

Come Chiesa saremo credibili per la grande massa delle famiglie sotto la soglia di povertà, dei diseredati senza casa o senza lavoro, degli affaticati e oppressi da un’economia non equa qui e nel resto del mondo, se saremo in prima fila a impegnarci per un cambiamento vero delle strutture sociali e delle leggi, dell’economia e della politica, perché si affermi più giustizia, più solidarietà, più rispetto della dignità di tutti, più condivisione con quelli che non ce la fanno, più riconciliazione e pace tra le persone e tra i popoli, spesso trascinati nei conflitti dalle condizioni di miseria in cui sono tenuti.

Se come Chiesa annunziamo che abbiamo un solo Padre, e che il ricco “epulone” e il povero Lazzaro sono anch’essi fratelli, dobbiamo fare l’impossibile perché la fratellanza diventi equità e giustizia anche nella partecipazione alle risorse e ai beni della terra, che Dio ha dato a tutti i suoi figli perché li condividano secondo il bisogno di ciascuno. Una comunità cristiana che condivide la durezza della povertà coi suoi figli più disgraziati, non si tirerà indietro dal difenderli e promuoverli anche se riceverà la persecuzione di quelli che vogliono difendere lo status quo, cioè il loro alto livello di benessere materiale. Anzi annunzierà anche a loro, con mitezza e rispetto, ma con coraggio e libertà, la bellezza della comunione che nasce dalla condivisione delle proprie fortune.

 

I ministri ordinati e la povertà evangelica

Ma in una Chiesa che vuole essere povera, per i poveri, quale è il compito dei Vescovi, dei presbiteri, dei diaconi? Quanto e come devono farsi poveri e mettersi al servizio dei fratelli senza favoritismi, anzi con un occhio particolarmente attento ai più deboli e indifesi (Gc 2,1-9)?

La nostra Prima Regola è il Vangelo, cioè seguire Cristo cercando prima di tutto il regno di Dio e la sua giustizia, il resto ci sarà dato in aggiunta (Mt 6,33). Se i ministri ordinati sono chiamati, prima che ad agire, a “rappresentare sacramentalmente” Cristo, con tutto se stessi, dovranno assumerne lo stile di vita, per es. nel lavoro quotidiano, per essere operai degni della propria “mercede”; nell’uso di mezzi sobri e semplici per la pastorale; nel non accumulare denaro per sé stessi; nella gestione trasparente e distaccata dei beni della comunità; nel tipo di relazioni con antichi e nuovi poveri, improntate a una carità generosa; facendo un testamento che tenga conto dei beni ricevuti nell’arco del ministero e che dovrebbero essere restituiti alle comunità cristiane; nell’imparare dai poveri a fidarsi della Provvidenza…

Qualcuno potrebbe obiettare che i rischi di cadere in tentazione in questo campo oggi sono pochi, viste le poche risorse che come ministri ordinati abbiamo a disposizione, sia personalmente che nelle comunità parrocchiali o nelle altre realtà ecclesiali; e viste, d’altra parte, le tante necessità e problemi economici che ci trasciniamo dietro. Anzi abbiamo tanti debiti, tante situazioni di bisogno e ci tocca invocare la Provvidenza, perché a volte temiamo proprio di non farcela. In generale cerchiamo tutti di rispettare quegli scopi che giustificano l’esistenza di beni temporali della Chiesa (fin dall’antichità, cfr Sinodo di Antiochia, IV secolo), vale a dire: l’organizzazione del culto divino; il dignitoso sostenimento del clero; il mantenimento delle opere di apostolato e di carità, specialmente in favore dei poveri. E aggiungo, per sostenere le missioni, in particolare la nostra missione diocesana in Perù con don Stefano, che è certo la più povera delle nostre parrocchie. Ma non abbiamo mai abbastanza risorse per fare quello che ci sembrerebbe necessario… e a molti di noi sembra di essere già abbastanza poveri!

 

Eppure il rischio di usare male i beni materiali, resta. O perché siamo troppo preoccupati per la nostra sicurezza economica personale, nonostante l’Istituto per il sostentamento del clero ci garantisca un emolumento stabile; o perché agiamo senza prudenza e previdenza nella gestione delle opere che ci sono affidate; o perché non ci serviamo abbastanza delle competenze dei laici; o non seguiamo i criteri dei buoni amministratori che come buoni padri di famiglia devono valutare i mezzi necessari per l’oggi e per il domani delle comunità.

Ma prima di arrivare a definire la necessità di un’amministrazione diocesana e parrocchiale virtuosa dei pochi o tanti beni che abbiamo, cioè un’amministrazione corretta, onesta, trasparente, previdente, condivisa coi laici e con una voce in uscita sempre aperta per i più poveri, resta per noi necessario rivedere l’atteggiamento di fondo.

Siamo chiamati ad assumere lo stile di Cristo, a imitare il Cristo anche in questo ambito, e ad essere fermento per gli altri fedeli. Per esempio, dovremo anzitutto non girarci dall’altra parte, ma aprire il cuore, con compassione (come il Samaritano) ai piccoli e ai poveri di oggi: agli emigranti, agli anziani abbandonati, ai coniugi separati, ai figli delle famiglie divise, a chi vive senza dimora, a chi subisce abusi in casa, alle donne a rischio di aborto per cause sociali, ai piccoli di fatto senza famiglia, alle vittime della tratta che vengono prostituite quotidianamente anche sulle nostre strade… e l’elenco potrebbe continuare. Come potremo fare tutto ciò e stimolare le nostre comunità a farlo, se non “discendiamo” anche noi dalla ricchezza alla povertà, dall’alto dei nostri ruoli al basso delle persone più umili, dalla preoccupazione del conservare a quella del donare, dalla passività del “si è sempre fatto così” alla creazione di nuove vie per la nostra carità, dalla chiusura del giovane ricco, alla larghezza di cuore di Zaccheo?

In questo campo si possono fare dei peccati, come dice PO 17: “Non trattino (i presbiteri) dunque l’ufficio ecclesiastico come occasione di guadagno, né impieghino il reddito che ne deriva per aumentare il proprio patrimonio personale”. Ma si possono anche fare opere di misericordia che portano i ministri ordinati alla santificazione e fanno il bene dei poveri, come dimostrano i campioni della Carità: don Angelo Lolli, mons. Giulio Morelli, don Oreste Benzi, don Mario Prandi, e molti molti altri… che hanno destinato i beni ricevuti, anche quelli personali, per il bene della Chiesa e per le opere di carità.

Diceva già qualche anno fa S. Giovanni Paolo II: “È vero che «l’operaio è degno della sua mercede» (Lc 10,7) e che «il Signore ha disposto che quelli che annunziano il Vangelo vivano del Vangelo» (1Cor 9,14), ma è altrettanto vero che …solo la povertà assicura al sacerdote la sua disponibilità ad essere mandato là dove la sua opera è più utile ed urgente, anche con sacrificio personale. È condizione e premessa indispensabile alla docilità dell’apostolo allo Spirito, che lo rende pronto ad « andare », senza zavorre e senza legami, seguendo solo la volontà del Maestro (cfr. Lc 9, 57-62; Mc 10,17-22)”(PDV, 30).

Ricordo, in conclusione, un passaggio ricco e sempre da meditare della Pastores Dabo Vobis: “Gesù Cristo, che sulla croce conduce a perfezione la sua carità pastorale con un’abissale spogliazione esteriore e interiore, è il modello e la fonte delle virtù di obbedienza, castità e povertà, che il sacerdote è chiamato a vivere come espressione del suo amore pastorale per i fratelli. (Secondo quanto Paolo scrive ai cristiani di Filippi,) il sacerdote deve avere gli « stessi sentimenti » di Gesù, spogliandosi del proprio « io », per trovare, nella carità obbediente, casta e povera, la via maestra dell’unione con Dio e dell’unità con i fratelli (Fil 2,5)”.

Ci aiutino i nostri Santi: Apollinare, Vitale e Valeria, Pietro crisologo, Guido M. Conforti e la Vergine greca Signora e Patrona di Ravenna.

+Lorenzo, arcivescovo