Bisogna chiamarli

Bisogna chiamarli 
Dal “RisVeglio Duemila” N. 1/2018   

È da circa 20 anni che don Giordano Goccini, ha a che fare con i giovani, prima come cappellano nella diocesi di Reggio Emilia, come responsabile della Pastorale Giovanile in diocesi e poi in regione e anche ora che da qualche mese è tornato a fare il parroco. Ma non si è mai arreso alle due opposte visioni, piuttosto semplicistiche, che identificano i giovani o come degli “sdraiati”, bamboccioni con poca voglia di fare o, dall’altra parte, di chi ha sempre e comunque ragione. Il tempo trascorso con loro gli ha fatto capire che per “accenderli” occorre mettere al centro il tema della vocazione, non solo in senso cristiano. Occorre “chiamarli”, soprattutto a lavorare per gli altri nel volontariato, occuparsi dei più piccoli, far vivere l’oratorio. Servono nuove ricette per una Chiesa che voglia davvero arrivare ai loro cuori. Ecco le sue riflessioni.
Giovani e partecipazione, come si accende la miccia?“Il problema oggi è la mancanza assoluta di uno sguardo vocazionale, anche solo sociale. Con il servizio militare c’era un’istituzione che quanto meno, a un certo punto, ti chiamava alla guerra. Oggi abbiamo una generazione che non ha nessuno che li chiama. Anzi, gli diciamo che non c’è bisogno di loro, che tutti i posti sono occupati. Le reazioni sono varie: o scappano, a friggere patatine a Londra (con l’illusione di avere un progetto per la propria vita), o si parcheggiano sul divano, oppure tentano la fortuna in vari modi perché hanno modelli di successo che si costruisce con un colpo di genio”.
Può andare solo così?“No, non credo alla storia degli eterni sdraiati, né al giovanilismo che dà loro sempre e comunque ragione. Trovo che dobbiamo concedere ai giovani il tempo di crescere. Da un lato ci sono gli adolescenti che vivono di grandi slanci e se trovano un terreno positivo, sono capaci di grandi esperienze, che difficilmente si trasformano da subito in scelte di vita, ma sono importanti. Dall’altro ci sono i giovani, che sono più consapevoli dei loro pregi e limiti ma rischiano di ammalarsi troppo presto di cinismo. Basta una storia affettiva andata male, per smettere di credere nell’amore eterno. D’altra parte sono la prima generazione per la quale il fallimento matrimoniale è stata un’esperienza di massa”.
Il voto, in questo contesto, che significato ha?“E’ come scegliere il colore di un’auto che non guideranno mai. Non la considerano ‘casa loro’. Occorre invece concedere loro spazi per fare: il volontariato interessa, così come la cura dei più piccoli, che li fa sentire adulti. Da questo punto di vista l’oratorio è un luogo importante”.
Su quali valori invece è utile “chiamarli”?“I valori per i quali sono disposti a lottare sono quelli nei quali riconoscono un ‘nemico’. Ho lavorato per anni sul tema della pace agganciando pochissimi: è troppo complesso, più semplice invece parlare loro di mafia, ad esempio. Ecco, il problema è che devono affrontare una realtà troppo complessa, senza i filtri che c’erano una volta. Oggi per fortuna non abbiamo più bandiere, ma tutto è più complesso”.
In questo, è possibile parlare ancora loro di Dio?“E’ possibile ancora raccontare Dio, certo, ma occorre superare certe narrazioni evangeliche per permettere ai nostri giovani di fare l’esperienza del discepolato. Questo sfalda molti meccanismi ecclesiali. Non ci sono più libretti di istruzioni. Non è solo una questione di linguaggio, ma di contenuti: occorre tornare alle origini, tornare a Gesù. Il sinodo ha questo obiettivo: ascoltare lo Spirito che parla attraverso i giovani, e cambiare la Chiesa attraverso di loro. Se la logica è quella di riempire i banchi delle chiese, ha ragione Armando Matteo, questa rischia di essere l’ultima generazione di credenti, ma i semi dello Spirito si vedono: com’è che ad esempio sognano ancora di sposarsi? Occorrono nuovi itinerari per percepire questi segni”.
 Daniela Verlicchi