Messa del Crisma – 23 marzo: “Siamo una Chiesa in cammino”

24-03-2016

Messa Crismale

Ravenna, 23 marzo 2016

 

Siamo una Chiesa in cammino

Dalla Santità all’unità per essere discepoli missionari

 

Da dove partiamo

Cari presbiteri e diaconi, cari fedeli laici della Chiesa di Ravenna Cervia, nelle Messe Crismali degli scorsi anni, ho sottolineato la necessità della conversione alla santità e all’unità dei ministri ordinati e la necessità di diventare pescatori di uomini prima ancora che pastori, di fronte agli avvenimenti dolorosi accaduti nel nostro presbiterio, – per i quali chiediamo ancora perdono alle vittime e a tutta la Chiesa –, ma soprattutto di fronte alle necessità della nostra terra, che aspetta una evangelizzazione nuova. La triade di valori che sottolineo da un po’ di tempo è questa: senza santificazione personale dei ministri e dei laici, non ci sarà comunione; senza comunione tra noi, non ci sarà missione; senza una nuova missionarietà siamo condannati all’invecchiamento e al declino.

Negli ultimi due anni non abbiamo avuto ordinazioni presbiterali, alcuni presbiteri hanno lasciato la nostra diocesi, qualcuno ci ha lasciati per il Regno del Padre (come don Guido), ma abbiamo ordinato un diacono permanente, ne abbiamo ammessi 5 al cammino diaconale, abbiamo tre seminaristi, abbiamo aperto una missione diocesana in Perù con don Stefano e tre nostri laici, un’altra laica partirà tra pochi giorni. Aggiungo che sulle quattro linee che ci siamo dati nell’Assemblea diocesana all’inizio dell’anno pastorale, ci stiamo muovendo bene: sono tanti i giovanissimi e i giovani che si preparano nei corsi della Pastorale giovanile a diventare animatori e educatori dei nostri giovani in parrocchia; sono una settantina gli adulti che hanno partecipato al primo anno di formazione per diventare animatori dei genitori dei ragazzi del’iniziazione cristiana; la Caritas diocesana sta proponendo agli operatori della diocesi un cammino iniziale di formazione per aiutarli a rinnovare lo stile e le attività di ascolto e presenza sul territorio; la comunicazione diocesana si sta rinnovando sia per quanto riguarda il Risveglio che gli altri mass media, che si arricchiranno spero presto non solo di persone ma anche di mezzi. Siamo una diocesi viva che si sta anche rinnovando!

Intanto però le nostre parrocchie e associazioni ecclesiali continuano la loro pastorale più o meno ricca di proposte abbastanza tradizionali. Temo che si lavori molto, si peschi tutta la notte, ma alla fine si raccolga poco: i convertiti, i ricomincianti, i nuovi credenti sono pochi; ci ritroviamo spesso con le stesse persone in molte delle nostre iniziative. Temo che i residui di superstizione, di religiosità solo abitudinaria ed esteriore che porta ancora diverse persone a venire in chiesa e i genitori a cercare la parrocchia per i sacramenti dei figli o per le feste, cederanno sotto i colpi della secolarizzazione, soprattutto pensando agli adulti tra i quaranta e i sessant’anni di oggi.

 

Tutti “pescatori di uomini”?

Lo accennavo anche l’anno scorso: abbiamo bisogno di pescatori di uomini, di nuove vie, di nuovi percorsi, di nuove modalità di incontro con le persone. E, lo dico subito, stando alla Evangelii Gaudium che è il nostro documento costituzionale per l’evangelizzazione oggi, i “pescatori” non possono essere solo tra il clero. Sia l’annuncio negli ambienti di vita, sia l’annuncio da persona a persona, che gli stessi percorsi liturgici, biblici, catechistici, caritativi delle parrocchie hanno assoluto bisogno di laici. Non basterà più la cooptazione per simpatia, né la raccolta dei volontari spontanei. Occorre, come stiamo in parte già facendo, una chiamata, un periodo di formazione, un discernimento, un mandato ecclesiale alla fine. E questo per tutti, anche per chi compie servizi semplici o economico-amministrativi, non solo per chi si incammina verso i ministeri. Tutti i laici devono poter collaborare all’azione pastorale con conoscenza di causa. Devono avere quelle conoscenze che ora sono spesso più appannaggio del clero e lo mantengono ad un gradino superiore. Ciò non toglierà la necessità che le comunità – sempre più unite tra loro in forme di collaborazione pastorale stabile – abbiano bisogno della figura di colui che presiede o coordina e fà da centro di unità tra i vari responsabili. Ma tutto deve avvenire nella trasparenza e nella condivisione delle responsabilità, perché il cammino delle nostre comunità diventi segno e fermento per le genti delle nostre terre. Bisognerà riprendere il capitolo sulle “tentazioni degli operatori pastorali”, della E.G. (nn. 76-109), e aggiungervi anche le nostre, per cambiare lo stile attuale e diventare discepoli missionari, tutti, clero e laici, uomini e donne.

È giunto il tempo che troviamo otri nuovi per il vino nuovo del Vangelo e per accogliere la profezia di Papa Francesco che ci sta chiedendo per i prossimi anni la riforma della Chiesa in uscita missionaria. Molti degli otri che stiamo usando sono antichi e venerabili, ma finita la generazione dei nostri anziani, dureranno ancora? Stiamo mettendo pezze vecchie al vestito nuovo del Concilio, già bistrattato e tirato tra i due estremismi della totale rottura o della piena continuità col passato, e intanto la storia corre veloce e noi rischiamo di doverla inseguire con vecchi motori arrugginiti…

Noi però se facessimo solo un cambiamento di pratiche, di metodi o di mezzi tecnologicamente avanzati, correremmo il rischio di quelle mode che si esauriscono a fine stagione, se non ci mettiamo in uno stato di conversione personale e comunitaria, che vada in profondità.

 

La conversione che ci è chiesta come Chiesa

Per questo prendo spunto dal capitolo 3 della Prima Lettera ai cristiani di Corinto (il libro biblico che ci accompagna questo anno pastorale), per sottolineare una realtà decisiva per il futuro della nostra Chiesa di Ravenna–Cervia, che ora ci sta ostacolando: la malattia delle frammentazioni, gli isolamenti, le autonomie, il “fai da te” liturgico, catechistico, amministrativo, disciplinare… E insieme con questa tendenza – che colpisce presbiteri, diaconi, religiosi, movimenti, catechisti, laici uomini e donne – vediamo la fioritura e la ricerca dei “personaggi”, dei profeti carismatici e dei veggenti apocalittici, le cui parole valgono più di quelle della Sacra Scrittura! Ma anche più vicino a noi vediamo la coltivazione dei personalismi, la autoreferenzialità diffusa, l’affermazione di sé, con la conseguente svalutazione dell’insegnamento e delle norme della Chiesa madre e maestra, anche su questioni vitali. Non è problema solo nostro, è un male frutto anche dello spirito del nostro tempo, che coltiva il narcisismo delle persone e il relativismo della morale e della fede. Ma tutto questo ci sta impedendo di essere un popolo unito che con un cuor solo e un’anima sola, prega, ascolta la Parola degli Apostoli, spezza il pane nella gioia, accoglie i poveri condividendo quello che ha, e perciò è in grado si essere popolo missionario, sale e luce per la nostra terra.

Cosa dice dunque san Paolo alla Chiesa di Corinto? Egli affronta subito la crisi dell’unità e della coesione tra i fedeli. Chiede loro di essere unanimi nel parlare, perché probabilmente usano delle espressioni che identificano le loro appartenenze all’uno o all’altro personaggio autorevole (v. 1 Cor 1,12). E vuole dimostrare l’assurdità della posizione dei cristiani di Corinto che non fanno risalire la loro identità a Cristo, al quale sono legati dal battesimo e nel cui Corpo sono inseriti, ma a dei suoi testimoni o predicatori. Oppure si identificano in uno dei gruppi che monopolizzano Cristo, ridotto e messo alla pari di altri leaders ecclesiali (Paolo, Apollo, Cefa, e così via) “in maniera tutta umana” (v. 3,3). È come se Paolo dicesse: “Chi siete veramente? Vi accontentate di definirvi in base all’appartenenza ad una persona umana? Cosa vale per voi l’appartenenza alla Chiesa? E Cristo, chi è davvero per voi, se lo trattate così?”

L’apostolo poi approfondisce la diagnosi della malattia che agita la comunità di Corinto. Fa venire allo scoperto la radice della crisi dell’unità ecclesiale. Le contrapposizioni dei diversi gruppi non derivano da una direttiva dei capi o dalla forza debordante dei doni carismatici, ma dal bisogno di auto–affermarsi e dalla ricerca di prestigio che attraversano il cuore di tutti, i ministri e gli altri battezzati, senza eccezioni: “siete ancora carnali, dal momento che c’è ancora tra voi invidia e discordia” (v. 3,3). Così hanno costituito delle fazioni intorno a dei personaggi che sono utilizzati come simboli, per differenziarsi, contrapporsi, superarsi. La conseguenza è che si riduce l’esperienza cristiana, proprio nel suo sorgere, ad una nuova “gnosi”, una conoscenza religiosa, come in una delle tante sette che pullulano in quella città portuale.

Perciò Paolo già all’inizio della Lettera aveva rimproverato i cristiani di Corinto. Egli ricorda che aveva annunciato tra loro solo Gesù Cristo in croce, senza fare ricorso né alla retorica, né alla sapienza umana. Con l’annuncio di Gesù Cristo crocifisso aveva rivelato una immagine di Dio rovesciata rispetto a quelle abituali dei Greci e dei Giudei, frutto dei loro desideri di sapienza o di potenza, tipicamente “carnali”. Aveva annunciato un Dio che si manifestava come uno sconfitto e uno stolto, agli occhi del mondo. In Gesù morto in croce però, questo Dio aveva rivelato una fedeltà tale all’amore, che introduceva nelle logiche del mondo una nuova sapienza e una diversa potenza. Solo accogliendo l’annuncio evangelico era possibile entrare in questa nuova mentalità, propria della fede cristiana (cfr 1,17-25). Insomma proprio a loro Paolo aveva tentato di insegnare che la sapienza vera è quella della croce, che si riceve per mezzo dello Spirito santo. Ma ora Paolo si sta accorgendo che i Corinzi non sono ancora pronti: questa sapienza ha bisogno di “uomini spirituali”, per essere accolta, non di “esseri carnali”, ancora al livello di “neonati” in Cristo, cioè ancora attaccati umanamente a Paolo e agli altri responsabili di comunità! (v. 4,1)

 

Adulti nella fede: la sapienza della croce

Come si fa però a divenire adulti nella fede?  Non tanto acquisendo più conoscenze filosofiche o esperienze miracolistiche e misteriche: come facevano Greci. Si tratta di arrivare ad una maturità che si rivela in due disponibilità.

La prima è ad accogliere il Cristo sconfitto, debole e infine crocifisso, come rivelazione suprema dell’amore sapiente e potente del Dio che salva.

La seconda è ad accogliere un modo nuovo di amare, ben di là delle invidie, delle gelosie, delle competizioni, dell’io al centro di tutto.

Secondo la nuova sapienza rivelata da Gesù Cristo, il ruolo dei ministri, dei responsabili, degli animatori deve essere diverso e nuovo. Anche il ruolo di quelli che, come Paolo, possono legittimamente rivendicare una paternità verso la comunità (“sono io che vi ho generato in Cristo Gesù secondo il vangelo” v. 4,15). E qui ci siamo dentro soprattutto noi, Vescovo, Presbiteri e Diaconi: nella Chiesa noi siamo e restiamo solo “ministri”, “amministratori nella casa di Dio” e “servitori di Cristo”. La comunità appartiene tutta ed esclusivamente a Dio, è il suo “campo”, la sua “piantagione”, è “l’edificio” fondato su Cristo (vv. 6–10). Essa è il suo tempio, il luogo dove abita lui, per mezzo dello Spirito (vv. 16-17). È come se Paolo dicesse: “Non vi siete ancora accorti che la Chiesa appartiene alla Trinità? Appartiene al Padre, è fondata su Gesù Cristo ed è abitata dallo Spirito?”

È quindi implicita in questi testi una parola che Paolo non pronuncia mai, ma che per noi è essenziale: la rinuncia. Ci è richiesta una forte rinuncia, che fra l’altro è duplice. La rinunzia dei cristiani laici a sentirsi proprietà dei capi o dei ministri (“Io sono di Paolo…”, io sono di quel parroco, io sono di quel prete, io sono di quel personaggio carismatico, io sono di quel movimento, di quel gruppo…). E la rinuncia dei ministri a possedere ciò che è di Dio: cioè gli altri battezzati (i miei parrocchiani, i miei amici, il mio gruppo di giovani, il mio gruppo di famiglie, quelli che stanno dalla mia parte… ecc.) . “Nessuno si illuda” – dice Paolo – se qualcuno si comporta così e si crede sapiente, in realtà sta seguendo le logiche del mondo, quindi si faccia “stolto”!

È questa la sapienza della croce alla quale sono chiamati tutti i credenti, – ministri ordinati e laici – per divenire adulti nella fede. Essa implica un nuovo modo di comprendere la propria identità di credenti: abbiamo tutti la stessa dignità battesimale e siamo chiamati tutti ad affidarci solo a Dio, nostro Padre. Ed implica un nuovo rapporto tra laici e pastori, che devono imparare a mettere da parte il proprio io per lasciare che Dio sia Dio, nella sua Chiesa. Così Paolo chiude il discorso: “Quindi nessuno ponga la sua gloria negli uomini, perché tutto è vostro: Paolo, Apollo, Cefa, il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro: tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio” (vv. 21-23).

I cristiani non appartengono né agli apostoli predicatori (Paolo), né ai capi carismatici (Apollo), né ai capi istituzionali (Pietro)(v. 4,1). Paolo è cosciente di questo pericolo: “Queste cose, fratelli, le ho applicate a modo di esempio a me e ad Apollo, per il vostro profitto perché impariate nelle nostre persone a stare a ciò che è scritto e non vi gonfiate a favore di uno contro un altro” (v. 4,6).

Anche il laico catechista, il laico responsabile di un’attività o animatore di gruppi, il ministro istituito, ecc. deve tenere uno stile di vita coerente col messaggio evangelico. Non c’è spazio per l’autoesaltazione di chi si crede “sapiente” e “potente” in nome della sua esperienza religiosa, dei suoi doni spirituali o degli incarichi che svolge. Sarebbe paradossale vantarsi di ciò che si è ricevuto (“gonfiarsi”). È chiaro invece che la via del discepolo missionario, pastore o laico, è segnata non dalla “sazietà, dalla ricchezza, dal potere; o dalla sapienza, dalla fortezza e dagli onori, ma dalla stoltezza, dalla debolezza, dal disprezzo, a causa di Cristo” (cfr. 4,10). È una via che assimila fortemente i ministri ordinati e i laici al Signore e permette di predicare il Vangelo con la vita, di essere strumenti di salvezza come Lui.

 

Verso dove andiamo

Tutti ci sentiamo colpiti e giudicati da questo modello di pastorale, di ministerialità, di missionarietà. Lo dobbiamo accogliere come un ammonimento che Paolo fa anche a noi. Inoltre devo sottolineare che Paolo è di esempio a noi pastori, perché nelle osservazioni che fa alla comunità parte da sé stesso e coinvolge prima di tutto gli altri responsabili.

Anche noi cari fratelli presbiteri e diaconi dobbiamo avere coscienza che i cambiamenti pastorali che la Chiesa si aspetta oggi devono partire da noi. Se noi faremo resistenza o se ci impegneremo a camminare, influiremo fortemente sugli altri fedeli, perché la nostra è una comunità ecclesiale che guarda molto a noi e ci ascolta, ci segue. Come ci ha insegnato Papa Francesco in questi tempi dovremo stare anche “in mezzo” al popolo, oltre che davanti o di fronte, perché le nuove vie che stiamo intravedendo ci chiedono un atteggiamento sinodale. Un esempio di cammino insieme ci viene dai quattro versanti che abbiamo scelto (giovani, animatori per gli adulti, Caritas, comunicazioni): dovremo formarci insieme e agire insieme, se vogliamo essere efficaci.

Dovremo imparare in generale a camminare insieme nella formazione, nel discernimento comunitario, nelle iniziative pastorali: preti, diaconi e laici. Non dimentichiamo e includiamo in questo cammino i religiosi, le religiose e gli altri consacrati, che condividono in pieno la nostra fatica pastorale, con grande profitto delle parrocchie dove si mettono a servizio come parroci o come collaboratori. La loro amicizia e i loro carismi sono una ricchezza di solito ben integrata con la vita diocesana.

 

La Parola di Dio ci è davvero necessaria per la conversione personale e comunitaria, per imparare a rispettare la dignità battesimale di tutti e il valore dei diversi carismi e ministeri, per promuovere la missione della Chiesa nell’unità e sotto la guida dei successori degli apostoli. Proprio a questa Parola ci affidiamo (“Vi affido al Signore e alla Parola della sua grazia”, At. 20, 32) e allo Spirito del Risorto che dimora in noi (LG, n. 4), a Lui chiediamo la capacità di discernimento spirituale e una radicale adesione al Vangelo per diventarne “servi” fedeli.

 

+ Lorenzo, Arcivescovo