Concerto con meditazione a San Giovanni Evangelista “Le sette parole di Gesù Re Crocifisso”

Dalla Lettera di San Paolo Apostolo ai Filippesi (Fil 2, 5-11)

Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio,

non ritenne un privilegio

l’essere come Dio,

ma svuotò sé stesso

assumendo una condizione di servo,

diventando simile agli uomini.

Dall’aspetto riconosciuto come uomo,

umiliò sé stesso

facendosi obbediente fino alla morte

e a una morte di croce.

Per questo Dio lo esaltò

e gli donò il nome

che è al di sopra di ogni nome,

perché nel nome di Gesù

ogni ginocchio si pieghi

nei cieli, sulla terra e sottoterra,

e ogni lingua proclami:

“Gesù Cristo è Signore!”,

a gloria di Dio Padre.

Secondo i racconti evangelici Cristo sulla sua croce, nel momento della sua morte, pronuncia sette frasi: Giovanni Evangelista, ne trasmette tre. La altre quattro sono presenti nei Vangeli di Matteo, Luca e Marco.

Le sette parole pronunciate sulla croce sono anche un “testamento spirituale”, che completa il discorso nell’ultima cena, secondo il Vangelo di Giovanni. Possono essere vissute e come una Via Crucis dettata dal protagonista stesso, Gesù di Nazaret Re dei giudei, Re dei re, Signore dell’umanità.

  1. “Padre, perdona loro, non sanno quello che fanno” (Lc 23,34) – Il PERDONO

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 23, 33-38): Quando giunsero sul luogo chiamato Cranio, vi crocifissero lui e i malfattori, uno a destra e l’altro a sinistra. Gesù diceva: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Poi dividendo le sue vesti, le tirarono a sorte. Il popolo stava a vedere; i capi invece lo deridevano dicendo: “Ha salvato altri! Salvi sé stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto”. Anche i soldati lo deridevano, gli si accostavano per porgergli dell’aceto e dicevano: “Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso”. Sopra di lui c’era anche una scritta: “Costui è il re dei Giudei”.

L’evangelo di Luca è conosciuto come il Vangelo della misericordia, perché descrive la compassione di Gesù per i peccatori e racconta le parabole più alte del perdono (Lc 15). Anche nel racconto della passione appare questa sensibilità: Gesù guarda a Pietro e lo perdona, chiede alle donne di non piangere per lui ma per Gerusalemme, accoglie il malfattore pentito, crocifisso accanto a lui.

Gesù chiede perdono al Padre per quelli che fanno del male a lui, per quelli che stanno distruggendo la sua vita, lo offendono, lo deridono, lo torturano, lo crocifiggono… Si rivolge al Padre, con la parola dolcissima del linguaggio dei bambini: Abba. E scusa i suoi uccisori… “Non sanno quello che fanno”.

Coloro che fanno del male molte volte sono persone ferite dall’infanzia, a volte possono essere vittime loro stessi di soprusi e di violenze e reagiscono con aggressività, non consapevoli delle conseguenze dei loro errori. “La carità tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta…” e tutto perdona. (1 Cor 13).

Mentre il rifiuto del perdono paralizza la vita spirituale e le relazioni, innalzando muri di divisone, il perdono fa bene a chi lo dona e a chi lo riceve. Seguendo l’esempio di Gesù, il perdonare nella comunità cristiana introduce la logica della donazione libera e generosa, crea un nuovo regime nei rapporti umani.

 

  1. “Oggi sarai con me in paradiso” (Lc 23,43) – La SALVEZZA

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 23, 39-43): Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: “Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!”. L’altro invece lo rimproverava dicendo: “Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male”. E disse: “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”. Gli rispose: “In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso”.

Con la sua passione, all’uomo, all’Adamo peccatore, allontanato dal “paradiso terrestre”, Gesù apre il giardino della nuova creazione; perdona e offre pienezza di vita; riconcilia i figli con il Padre.

Uno dei due malfattori, che subisce la stessa atroce sofferenza, ha bisogno di aiuto, si fida di Gesù e si affida lui, riconoscendolo ingiustamente condannato. In lui nasce la fede e riconosce Gesù come il vero Re, innalzato sulla croce, che non salva sé stesso per salvare gli altri.

  1. Agostino immagina un piccolo dialogo tra Gesù e il malfattore crocifisso: “Come mai hai creduto in Gesù? ” gli chiede Agostino. “Mi ha guardato con i suoi occhi sofferenti di amore, mi ha conquistato e io ho capito! ” gli risponde il condannato ormai convertito.

Il cosiddetto “buon ladrone” è un esempio di fede, perché riconosce in Gesù il Messia; e di speranza, perché crede nella salvezza e nella vita piena dell’eternità.
Il Vangelo di Luca ci presenta il paradosso del malfattore ormai giudicato e condannato a morte per qualche reato gravissimo, che con un breve colloquio con il Figlio di Dio, con una preghiera semplice, ma ricca di fede, conquista la riammissione al paradiso originario. A nessuno è impedita la via della santità, nulla è impossibile alla misericordia divina.

I due crocifissi accanto al Cristo rappresentano le due vie che gli uomini possono prendere: o riconoscere umilmente la fragilità, il proprio peccato, e accettare Gesù che salva versando il suo sangue prezioso come prezzo della nostra liberazione, oppure ignorarlo, disprezzarlo, pretendere che sia lui a piegarsi alle nostre logiche di superbia, di affermazione di noi stessi e che sia lui a servizio del nostro benessere personale: “Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!”

 Può avvenire così anche per noi, nell’oggi, non alla fine dei tempi (oggi… sarai con me). Oggi si riceve il perdono, adesso è il momento favorevole per essere salvati, adesso si può ritornare tra le braccia del Padre che ci dona la sua gioia, la pace, la bellezza della comunione fraterna.

 

  1. “Donna, ecco tuo figlio … ecco tua madre” (Gv 19,25-27) – La NUOVA FAMIGLIA

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 19, 23-27) I soldati poi, quando ebbero crocifisso Gesù, presero le sue vesti, ne fecero quattro parti – una per ciascun soldato -, e la tunica. Ma quella tunica era senza cuciture, tessuta tutta d’un pezzo da cima a fondo. Perciò dissero tra loro: “Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocca”. Così si compiva la Scrittura, che dice: Si sono divisi tra loro le mie vesti e sulla mia tunica hanno gettato la sorte.

E i soldati fecero così. Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria madre di Clèopa e Maria di Màgdala. Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: “Donna, ecco tuo figlio!”. Poi disse al discepolo: “Ecco tua madre!”. E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé.

Donna, ecco tuo figlio.” Dice Gesù dalla croce a Maria. Usa un termine insolito: “Donna”, quando ci si aspetta la parola “mamma” o madre. L’appellativo è già stato usato da lui anche alle nozze di Cana. Gesù si rivolge a sua madre nella sua dignità di nuova Eva, che è stata la madre di tutti i viventi, come afferma il libro della Genesi. Gesù poi completa la prima frase con una seconda, rivolta al discepolo Giovanni dicendo: “Ecco tua madre”.

Gesù, sulla croce, si è lasciato spogliare di tutto, delle vesti, della dignità, del suo corpo di carne, del suo spirito, ha dato tutto … Che cosa gli resta ancora di suo, mentre muore e rende lo spirito? Il legame affettivo più forte di tutti, il più prezioso: sua madre. Dona anche quello.

Maria diventa così la nuova Eva, la Donna-Madre per eccellenza. Il “discepolo che Gesù amava” diventa il nuovo figlio, prototipo di tutti quei figli dispersi che raccolti dall’oriente all’occidente, comporranno la nuova famiglia dei figli di Dio: la Chiesa. Il discepolo è accolto da lei e lui accoglie a sua volta la nuova Madre a partire “da quell’ora”. Secondo il Vangelo di Giovanni qui inizia la vita della Chiesa, con una trasmissione di amore che parte dal Figlio di Dio immolato, passa attraverso la Madre universale e diventa vita nuova da trasmettere ai fratelli, a tutti. Il peccato di Adamo e di Eva è lavato, il peccato di Caino è riparato.

Dalla croce nasce una nuova umanità, una nuova famiglia, una nuova fraternità, un nuovo rapporto uomo donna, che realizza in Gesù e in Maria la maschilità e la femminilità esemplari. Tra noi discepoli amati non ci sono più i legami della carne e del sangue, ma quelli della Grazia e della Verità portate nel mondo dal Verbo fatto carne.

 

  1. “Mio Dio, mio ​​Dio, perché mi hai abbandonato? “(Mt 27,46, Mc 15,34) – Il GRIDO SOFFERENTE DELL’UOMO

Dal Vangelo secondo Marco (Mc 15, 33-36) Quando fu mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio. Alle tre, Gesù gridò a gran voce: “Eloì, Eloì, lemà sabactàni?”, che significa: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Udendo questo, alcuni dei presenti dicevano: “Ecco, chiama Elia!”. Uno corse a inzuppare di aceto una spugna, la fissò su una canna e gli dava da bere, dicendo: “Aspettate, vediamo se viene Elia a farlo scendere”.

 

Anche se è mezzogiorno, si fa buio: è l’ora delle tenebre. Gesù per tre lunghe ore soffre la sua agonia inchiodato e impiccato alla croce, l’oscurità copre tutta la terra. E Gesù prima di emettere l’ultimo respiro e consegnare a Dio il suo spirito, lancia il grande grido che è l’inizio del salmo 22, il salmo della lamentazione che raccoglie il grido dei sofferenti, dei poveri, degli innocenti che subiscono violenza e persecuzione: “Dio mio perché mi hai abbandonato?  “Eloì, Eloì, lemà sabachtàni?”

È il vertice dell’offerta di sé come olocausto, per essere fino in fondo l’Agnello che porta il peccato del mondo. È il momento della desolazione, della sofferenza fisica e psichica, della solitudine. Pregando il Salmo sulla Croce, Gesù non protesta con Dio, non lo accusa di complicità coi suoi aggressori, non cade nella disperazione.  Gesù sperimenta l’angoscia umana più profonda, che è quella provocata dal peccato che conduce alla morte e che fa perdere il contatto con Dio, lasciando l’uomo nel deserto e nel vuoto, nella solitudine assoluta. Gesù non ha peccato, ma volontariamente condivide l’angoscia e l’abbandono dell’uomo. San Paolo dice: «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio» (2Cor 5,21).

Nella seconda parte del salmo, che Gesù ha recitato sulla croce, Dio però non rimane muto, non sta lontano, si affretta ad esaudire, si schiera con i poveri, con coloro che non hanno un difensore. Il salmo termina con alcuni versi che sono un inno al Signore che alla fine volge la storia verso il bene. E passa dalla tragedia alla gioia, in un crescendo che avrà illuminato e confortato Gesù stesso, certo dell’intervento del Padre che “non lascerà che la sua vita veda la corruzione”.

Ancora oggi il Cristo che vive nei piccoli e nei poveri, negli affamati e negli assetati, negli stranieri e nei carcerati, nei sofferenti a causa della fede o della giustizia, nei colpiti dalle guerre, dalle migrazioni, negli abbandonati nel deserto e nel mare… ancora oggi egli grida, e fa suo il grido sofferente degli innocenti di tutti i tempi. E sarà ancora lui a rispondere, offrendo la salvezza.

Sarà lui oggi, attraverso la sua Chiesa, che offrirà sé stesso nell’amore preferenziale per i poveri, nel servizio ai fragili e agli abbandonati, nella diffusione dello splendore della verità, nella costruzione di un mondo nella giustizia, nella pace, nel perdono e nella riconciliazione.

 

 

  1. “Ho sete” (Gv 19,28) – La MISSIONE

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 19, 28-29)

Dopo questo, Gesù, sapendo che ormai tutto era compiuto, affinché si compisse la Scrittura, disse: “Ho sete”. Vi era lì un vaso pieno di aceto; posero perciò una spugna, imbevuta di aceto, in cima a una canna e gliela accostarono alla bocca.

 

“Ho sete”: di che cosa ha sete Gesù?

C’è la sua sete fisica, dopo tutto quello che ha subito nell’arco della passione, fino alla crocifissione.

Ma c’è un’altra sete che lo divora. Lo aveva rivelato inaspettatamente alla samaritana al pozzo, non ritenendola indegna di una delle sue rivelazioni più importanti, sul vero culto, quello “in spirito e verità.” A lei aveva proposta la ricerca dell’acqua “viva”, quella che solo lui può dare, facendola passare dai desideri mondani al desiderio di Dio e di una vita nuova, completamente nuova. Da schiava degli uomini ad annunciatrice e discepola, libera e felice.

Gesù ha sete della nostra risposta di amore al suo amore gratuito e risanante.

Ha sete delle nostre anime, ha sete di noi. Ha sete di me, di te, di noi.

Ha sete di placare il nostro bisogno costitutivo di essere amati. Vuole farci scoprire che lui è l’unico amore che basta, che disseta, che trasforma i cuori di pietra in cuori di carne, che rende anche noi capaci di amarci davvero, come fratelli; come fratelli che si rispettano, si aiutano, si servono, portano insieme i pesi gli uni degli altri, gioiscono e piangono insieme.

Ha sete di vedere il grande comandamento dell’amore che si realizza verso il Padre e tra di noi. Ha sete di una umanità rinnovata, riconciliata, unita, concorde e unanime nell’obbedienza alla sua volontà e nella lode della sua gloria.

Madre Teresa di Calcutta fece scrivere sul muro di ogni cappella delle sue Missionarie della Carità le parole: “Ho sete.” E diceva: “La nostra vita deve essere una risposta al grido di Gesù.”

  1. È compiuto” (Gv 19, 30) – Il COMPIMENTO

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 19, 30) Dopo aver preso l’aceto, Gesù disse: “È compiuto!” E, chinato il capo, consegnò lo spirito.

È questa la descrizione dell’ultimo atto di una vita che si interrompe tragicamente su una croce, di un condannato alla pena di morte? Gesù muore veramente, come veramente aveva vissuto, da uomo, il nascere, il crescere, l’amare, il pregare, il lavorare, il seguire la sua missione simile a quella dei profeti antichi, ma nuova per la potenza di Dio, che si era manifestata con segni e con parole di vita, ma anche nella debolezza della Croce.

Infatti, qui, nel massimo della sconfitta, c’è il massimo della vittoria. La pienezza, il compimento, non è nel successo e nella gloria umana, che era stata la tentazione del demonio all’inizio della sua missione, ma nel dono pieno di sé “per noi uomini e per la nostra salvezza”.

Il tutto “è compiuto” si riferisce alla pienezza della missione, al dono sincero di sé per amore, che avrà un effetto duraturo. Quel gesto del sacrifico volontario della vita sulla croce apre una prospettiva di risurrezione per tutti gli uomini e le donne di tutti i tempi e di tutti i luoghi. È la pienezza dell’obbedienza al Padre che voleva liberare le sue creature dalla schiavitù della morte, e lo fa fatto assumendola su di sé e sul proprio Figlio per sconfiggerla a vantaggio di tutti. È il significato della Pasqua cristiana.

È “compiuto”, cioè la perfezione dell’amore è raggiunta: “Avendo amato i suoi che erano nel mondo, Gesù li amò fino alla fine” (Gv 13,1). Sulla croce avviene la rivelazione del vero volto di Dio, che è onnipotente solo nell’amore.

 

  1. “Padre, nelle tue mani consegno il mio Spirito!” (Lc 23:46) – L’ABBANDONO FINALE

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 23, 44-46) Era già verso mezzogiorno e si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio, perché il sole si era eclissato. Il velo del tempio si squarciò a metà. Gesù, gridando a gran voce, disse: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito “. Detto questo, spirò.

 

Dopo aver chiesto il perdono del Padre per i suoi crocifissori, dopo aver promesso il paradiso al malfattore pentito, dopo aver legato sua madre al discepolo amato, dopo aver sperimentato la solitudine della morte, dopo aver gridato la sua sete di salvezza per tutti gli uomini e le donne, ormai prossimo al compimento della sua missione, ecco avvicinarsi la fine della vita come consegna, l’ultima e definitiva consegna di sé. Dalle sue labbra sgorga però non un grido disperato, ma una preghiera, anzi l’inizio della preghiera per eccellenza che Gesù ha insegnato anche ai suoi: “Padre!”

Non una fine tragica ma l’arrivo al porto desiderato. «Padre». Era usci­to dal Padre ed ecco, giunta la sua ora, ritor­na a Lui.

Gesù riprende un Salmo, il 31, che al sesto versetto dice: “Alle tue mani affido il mio spirito: tu mi hai riscattato, Signore, Dio fedele.” Ma Gesù aggiunge una parola, rassicurante e consolante in quel momento tragico: Padre! Il grido di dolore diventa un atto di abbandono, di totale affidamento.

Gesù ha sempre vissuto nell’affidamento al Padre suo che lo conosceva “fin dal seno materno”, come ha recitato dal Salmo 139. E proprio con quel salmo ha proclamato: “Se salgo in cielo, là tu sei;/se scendo negli inferi, eccoti. /Se prendo le ali dell’aurora/per abitare all’estremità del mare, /anche là mi guida la tua mano/e mi afferra la tua destra. /Se dico: “Almeno le tenebre mi avvolgano/e la luce intorno a me sia notte”, /nemmeno le tenebre per te sono tenebre/e la notte è luminosa come il giorno;/per te le tenebre sono come luce.»

 

Gesù ci insegna così ad affidare la nostra vita, a colui che ce l’ha donata:

“Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: “Vado a prepararvi un posto”? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. E del luogo dove io vado, conoscete la via”. Gli disse Tommaso: “Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?”. Gli disse Gesù: “Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio”. (Gv 14,1-7):

Di conseguenza la Chiesa ci propone di pregare, al cader della notte, con il cantico dell’abbandono, del vecchio Simeone:

«Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo
vada in pace, secondo la tua parola,
perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza,
preparata da te davanti a tutti i popoli:
luce per rivelarti alle genti
e gloria del tuo popolo, Israele»

14-03-2024