Assemblea Pastorale Diocesana 2014

Parrocchie: cantiere aperto

Formarsi alla missionarietà, per aprire nuove porte nelle nostre comunità

 

Saluto tutti con affetto e vi ringrazio della presenza a questa tappa iniziale dell’anno pastorale che ci vede ancora impegnati a proseguire sulle esigenze pastorali già rilevate nello scorso anno e confermate negli incontri preparatori soprattutto con i responsabili degli uffici pastorali diocesani. A loro va un grazie particolare.

Un grazie a voi operatori pastorali che siete così presenti e attenti nelle vostre comunità e siete dei veri collaboratori nella diffusione del Vangelo, con carismi piccoli o grandi, ma tutti necessari alla vita della nostra Chiesa. Siete tutti desiderosi di far crescere la Chiesa, Corpo di Cristo, con un’ansia missionaria che ho sentito tante volte nelle parrocchie e negli incontri di gruppi, associazioni, movimenti.

Come tutte le Chiese in Italia, anche noi siamo una Chiesa in salita: si fatica, ma ad ogni passo si apre più luce, il panorama è più ampio, l’aria più pura. Più il popolo di Dio punta verso l’alto, più si rinnova, più è vicino a Dio e in grado di essere luce del mondo e sale della terra!

La vocazione missionaria: la stiamo scoprendo dentro tutti noi, dopo che Papa Francesco ci ha chiamati tutti all’appello. Ci siamo accorti che stavamo dimenticando una parte di noi stessi e che correvamo il rischio di asfissiare: come i polmoni hanno bisogno di inspirare e poi di espirare; come il cuore ha bisogno di attirare a sé il sangue venoso e di spingere fuori il sangue arterioso, così le nostre comunità cristiane hanno bisogno di raccogliersi nella comunione e di espandersi nella missione. E’ la vocazione missionaria che abbiamo tutti e che ci fa veramente cattolici, cioè universali, aperti al mondo intero.

È da oltre un anno che in diversi momenti ho sottolineato la necessità della conversione missionaria della nostra Chiesa di Ravenna-Cervia, non solo perché siamo in un territorio in parte scristianizzato o reso indifferente dalla sterilità delle ideologie ottocentesche e dalla ottusità che viene generata dal benessere; ma anche perché la missione è parte della nostra vocazione cristiana! I discepoli, – quindi anche noi qui presenti –, vengono chiamati a stare con Gesù e subito vengono mandati (Mc 3,14-15); e non solo i 12 ma anche gli altri 72:

Il Signore designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi. 
Diceva loro: «La messe è abbondante, ma sono pochi quelli che vi lavorano! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi chi lavori nella sua messe! Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi; non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada.” (Lc 10,1ss)

E come ci ha indicato la Chiesa italiana già da qualche tempo, il modello pastorale da seguire è quello della missio ad gentes.

 

Non è un caso se dopo la bella esperienza di una decina di giovani nella diocesi di Carabayllo in Perù questa estate, cercheremo in questo anno pastorale 2014/15 di giungere un accordo con il Vescovo Lino di quella Chiesa per andare a collaborare in un centro pastorale, con un piccolo gruppo che partirà, speriamo, già la prossima estate. L’avere come Chiesa diocesana una base su un territorio di missione dove c’è da impiantare la Chiesa, ci deve tenere svegli e pronti, e richiamare alla nostra vocazione missionaria, da vivere qui tra i nostri concittadini neo-pagani o non credenti, che hanno bisogno di un nuovo annuncio.

 

Ecco il motivo del titolo che dovrebbe farci da obiettivo generale in questo anno pastorale.

 

Parrocchie: cantiere aperto.

Formarsi alla missionarietà, per aprire nuove porte nelle nostre comunità.

 

I – Prima domanda: perché “aprire nuove porte nelle nostre comunità”?

Per uscire!

Perché vogliamo accogliere l’Esortazione apostolica di Papa Francesco che abbiamo adottato come la nostra Lettera Pastorale, inviata proprio a noi Chiesa di Ravenna-Cervia!

E il Papa dice nella Evangelii Gaudium: n. 27:

Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’auto-preservazione. La riforma delle strutture, che esige la conversione pastorale, si può intendere solo in questo senso: fare in modo che esse diventino tutte più missionarie, che la pastorale ordinaria in tutte le sue istanze sia più espansiva e aperta, che ponga gli agenti pastorali in costante atteggiamento di “uscita” e favorisca così la risposta positiva di tutti coloro ai quali Gesù offre la sua amicizia. Come diceva Giovanni Paolo II ai Vescovi dell’Oceania, « ogni rinnovamento nella Chiesa deve avere la missione come suo scopo per non cadere preda di una specie d’introversione ecclesiale ». (Giovanni Paolo II, Ecclesia in Oceania (2001), 19).

 

E qui dobbiamo approfondire la domanda: Le nostre parrocchie sono già missionarie?

Pensano a quelli di fuori o a quelli di dentro? Hanno consuetudini, orari, linguaggi, modi di avvicinare o accogliere le persone che si adattano, o chiedono alle persone di adattarsi a ciò che viene attuato, magari da diversi anni? Si tende a fare proposte che sono ripetitive perché hanno funzionato nel passato, raccogliendo le persone attorno al campanile? Ci sono schemi di mantenimento della religiosità nei comportamenti esteriori che si ripetono, perché pastori e operatori pastorali non hanno mai cercato di trovarne dei nuovi?

Per es. si considera come inevitabile la fuga dei ragazzi dopo la cresima, come una emorragia senza rimedio, che non è colpa nostra, senza preparare cammini ed educatori adatti ai ragazzi di oggi? Ci si accontenta di un solo incontro preparatorio al battesimo dei bambini anche con genitori non praticanti che potrebbero fare altri passi nella conoscenza del vangelo?  Non si allarga la cerchia dei collaboratori nell’illusione che chi fa da sè fa per tre, cercando una efficienza che però non fa crescere la Chiesa?

Ci si accontenta delle partecipazioni alle feste tradizionali e devozionali e non si propone la conoscenza della Scrittura nei gruppi, nelle case, nelle piazze?

Lasciamo che tutte le coppie cristiane convivano per uno o più anni prima di sposarsi nel Signore e facciamo solo festa quando finalmente vengono in Chiesa, senza tornare ad annunciare la differenza che opera il sacramento rispetto al legame affettivo?

Si fa un po’ di beneficienza ai soliti cercatori, e non si impianta un centro di ascolto caritas per l’annuncio del vangelo della carità?

Si tengono aperti bar, circoli, associazioni sportive, impianti di ristorazione che scorrono paralleli alla vita della comunità cristiana e non sono più luoghi educativi?  Lasciamo spazio, per pigrizia o perché non possiamo prendere dappertutto, anche a laici non formati che occupano i nostri ambienti e se li gestiscono come proprietari, resistono a qualsiasi proposta formativa o spirituale, ci lucrano sopra e non sostengono né la parrocchia né le missioni, e alla fine per liberarci dobbiamo fare una causa?

Lasciamo che alcuni adulti impegnati in politica, ma poco formati, diffondano le loro idee non coerenti con la dottrina sociale della chiesa o con la morale cristiana, in base alle nostre simpatie politiche, così dividiamo anche i pochi praticanti (il cattolico adulto, il cattolico leghista, il cattolico libertario, il cattolico animalista…)? Ecc. ecc.

Come si fa a non accorgersi che sta cambiando l’ambiente culturale nel quale in cristianesimo si deve incarnare oggi: la globalizzazione, la rivoluzione tecnologica, il pluralismo etico e anche religioso, la crisi della famiglia, la cultura dello scarto… ?

Una parrocchia in uscita, in stato di missione, apre gli occhi su questi fenomeni generali – che però toccano tutti –  e si apre a questo tipo di uomo e di donna che ha davanti, alle nuove dinamiche civili e sociali nelle quali è immersa e prova ad aprire nuove porte. Prova ad aprire nuove vie e a trovare nuovi agganci con le persone. Evidentemente o lo fa coinvolgendo tutti come Chiesa e con la Chiesa tutta, e ha qualche possibilità di efficacia, o se pensa di delegare il clero o i responsabili di associazioni o movimenti o qualche personaggio più intraprendente più carismatico o più generoso, non ce la farà a raggiungere questo obbiettivo.

 

II – Seconda domanda: per rispondere alla generale vocazione missionaria, cosa fare?

Fare formazione delle persone!

Per far scoprire i carismi piccoli o grandi che ciascuno ha, perché “ciascuno ha il proprio dono da Dio chi in un modo chi in un altro”( 1Cor 7,7). E per far emergere in tutti i fedeli la coscienza vocazionale, radicata nel Battesimo e nella Cresima, che si sviluppa nelle chiamate particolari.

Il primo passaggio importante per divenire cristiani adulti è infatti quello di lasciare che in un clima di preghiera e di ascolto della Parola, non solo da giovani ma in ogni età della vita, il Signore semini. Il rapporto con Lui – incontrato nella Parola e nell’Eucaristia, ma anche nei percorsi formativi della comunità cristiana ­–, cresce e così diventa più chiaro il come e il dove lui vuole che diamo la nostra bella testimonianza nel mondo.

Ogni cammino di vita cristiana ha bisogno di formazione per non spegnersi, deviare, illudersi, sbagliare. Senza formazione non c’è discernimento e non c’è una vera assunzione della vocazione cristiana, che rischia di essere solo un abito esterno, un’appartenenza sentimentale, un ruolo sociale, non una trasfigurazione della propria personalità umana messa tutta al servizio della specifica missione ecclesiale assunta, fino a poter dire “non più io vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20).

Il compito generale di una Chiesa locale come la nostra oggi, è dunque quello di promuovere una serie di cammini di formazione. Nessuno degli operatori pastorali, dei catechisti, degli educatori di pastorale giovanile, degli accompagnatori di gruppi sposi, degli operatori caritas, degli animatori liturgici, … fino ai volontari che fanno le cose pratiche, dovrebbe sentirsi già a posto. Tutti dobbiamo metterci in cammino di formazione iniziale o permanente, a cominciare dal vescovo, dai preti, dai diaconi… fino a tutti i fedeli anche quelli che credono di non poter fare nulla!

La vocazione missionaria che si fonda sul mandato del Signore Gesù: “Andate” e “Sarete miei testimoni”, ha bisogno di luoghi e tempi di formazione. C’è bisogno della formazione spirituale, che è quella fondamentale, perché se Dio non è al centro, finisce per esserci il nostro io, o il nostro gruppo, o i nostri interessi e bisogni. Il percorso sulla Parola di Dio accolta e pregata, con la proposta della seconda parte del libro degli Atti degli Apostoli, va in questa direzione, ma è solo un esempio. Tutti i mezzi della vita spirituale devono essere presenti, non ultimo il sacramento della Riconciliazione. E il confronto con guide spirituali mature (meglio se non troppo carismatiche e famose!).

C’è bisogno di formazione teologica e abbiamo una Scuola di Formazione teologica che offre cammini, ma ci sono anche altri strumenti più intensivi (ISSR di Forlì) o più divulgativi come i tanti incontri che si propongono nelle parrocchie.

C’è bisogno di una formazione specifica secondo il settore della pastorale in cui si opera: catechesi, giovani, famiglie, vocazioni, malati, carità, migranti, impegno sociale, ecc. Qui i nostri Uffici pastorali e le nostre Associazioni ecclesiali, dovranno produrre nei prossimi tempi (uno, due, tre anni… o più) uno sforzo per formare i propri formatori: coloro che poi sosterranno o guideranno gli altri in quel campo pastorale. La prospettiva missionaria non ci permette di accontentarci di quelli che oggi stanno collaborando, sono necessarie nuove leve! Nuove per età: ringiovanire gli operatori è necessario se si guarda al futuro; nuove per maggiore senso di corresponsabilità, allontanandoci dal vecchio schema clerico–centrico che faceva del prete non lo scopritore e il coordinatore dei doni e delle vocazioni, ma il possessore di tutti i carismi… e l’accentratore dei compiti.

III – Terza domanda: vale ancora la pena di tenere le parrocchie? Quali parrocchie possono essere missionarie?

Quale dovrebbe essere “Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia”, come suggeriva il titolo di un importante documento della CEI del 2004 (che seguiremo)?

 

 

Anche qui Papa Francesco ci aiuta con alcuni orientamenti importanti nella E.G. n. 28:

“La parrocchia non è una struttura caduca; proprio perché ha una grande plasticità, può assumere forme molto diverse che richiedono la docilità e la creatività missionaria del pastore e della comunità. Sebbene certamente non sia l’unica istituzione evangelizzatrice, se è capace di riformarsi e adattarsi costantemente, continuerà ad essere « la Chiesa stessa che vive in mezzo alle case dei suoi figli e delle sue figlie ». (Giovanni Paolo II, Christifideles laici (1988), 26).

Questo suppone che realmente stia in contatto con le famiglie e con la vita del popolo e non diventi una struttura prolissa separata dalla gente o un gruppo di eletti che guardano a se stessi. La parrocchia è presenza ecclesiale nel territorio, ambito dell’ascolto della Parola, della crescita della vita cristiana, del dialogo, del annuncio, della carità generosa, dell’adorazione e della celebrazione. Attraverso tutte le sue attività, la parrocchia incoraggia e forma i suoi membri perché siano agenti dell’evangelizzazione. È comunità di comunità, santuario dove gli assetati vanno a bere per continuare a camminare, e centro di costante invio missionario.

Però dobbiamo riconoscere che l’appello alla revisione e al rinnovamento delle parrocchie non ha ancora dato sufficienti frutti perché siano ancora più vicine alla gente, e siano ambiti di comunione viva e di partecipazione, e si orientino completamente verso la missione.”

Quali sono le insufficienze della parrocchia?

Non possiamo nasconderci,come dice il Papa, le insufficienze della parrocchia “tradizionale”:

c’è una difficoltà oggettiva della singola parrocchia a farsi carico in modo soddisfacente di tutta l’azione pastorale e missionaria della Chiesa per la nuova evangelizzazione;

c’è poi la difficoltà della parrocchia tradizionale a rispondere al mutato contesto culturale e sociale: pensiamo, alla urbanizzazione, alla mobilità interna, all’immigrazione, al rapporto con le nuove confessioni cristiane e con le altre religioni;

altro elemento di criticità che la parrocchia eredita dal passato è lo scarso legame con la Chiesa particolare, con la sua presunzione di autosufficienza e la sua tipica autoreferenzialità. Invece: “È la diocesi ad assicurare il rapporto del Vangelo e della Chiesa con il luogo, con le dimore degli uomini. La missione e l’evangelizzazione riguardano anzitutto la Chiesa particolare nella sua globalità. Da essa, infatti, sul fondamento della successione apostolica, scaturisce la certezza della fede annunciata e ad essa, nella comunione dei suoi membri sotto la guida del vescovo, è dato il mandato di annunciare il Vangelo…”

Altra criticità è quella che tocca proprio la figura centrale della pastorale “tradizionale”: il parroco. La parrocchia italiana di fatto oggi è ancora centrata troppo intorno a lui, che sa di essere “dipendente” dal Vescovo per il mandato ricevuto, ma spesso non “si sente” strutturalmente e sacramentalmente legato al presbiterio. Eppure il legame è affermato chiaramente dal Concilio (PO n. 8 e LG 28), dal Codice DC (can 529) e soprattutto dalla Pastores dabo vobis.

L’accentramento sulla figura del parroco richiama un’altra insufficienza della parrocchia tradizionale: essa non si è ancora sviluppata pienamente, dopo il Concilio, come “comunità di fedeli” con una loro soggettività e responsabilità, e tende a rimanere in posizione passiva e ricettiva di ciò che fa il parroco, magari con l’aiuto di alcuni. Quanto la responsabilità della lentezza di questa presa di coscienza sia da attribuirsi ai laici o ai parroci o a entrambi, è oggetto di valutazioni diverse.

Ma la parrocchia resta! In ogni caso la Chiesa universale e la Chiesa italiana hanno riaffermato che le parrocchie, pur con i loro limiti sono la figura che realizza più compiutamente gli elementi essenziali della articolazione della Chiesa particolare nel territorio, come conferma l’esortazione apostolica Christifideles Laici (nn. 26 e 27)

Quello della parrocchia è il quadro dentro il quale ripensare in chiave missionaria anche il ministero ordinato (Vescovo, presbiteri e diaconi), i ministri istituiti, i nuovi ministeri, pur tenendo presente che in un mondo che cambia, anche la parrocchia continuerà a cambiare.

 

Quarta domanda: quali vie per il rinnovamento missionario delle parrocchie?

Potremmo indicare tre vie per un rinnovamento missionario delle parrocchie, che chiedono come conseguenza un rinnovamento anche dei ruoli ministeriali.

1) Si dovrà pensare a come confermarne, anche in un contesto nuovo, i caratteri essenziali:

Il primo riguarda il carattere della parrocchia come figura di Chiesa radicata in un luogo: come intercettare “a partire dalla parrocchia” i nuovi “luoghi” dell’esperienza umana, così diffusi e dispersi?

Altrettanto ci interroga la connotazione della parrocchia come figura di Chiesa vicina alla vita della gente: come accogliere e accompagnare le persone, tessendo trame di solidarietà in nome di un Vangelo di verità e di carità, in un contesto di complessità sociale crescente?

E ancora, la parrocchia è figura di Chiesa semplice e umile, porta di accesso al Vangelo per tutti: in una società pluralista, come far sì che la sua “debolezza” aggregativa non determini una fragilità della proposta?

E, infine, la parrocchia è figura di Chiesa di popolo, avamposto della Chiesa verso ogni situazione umana, strumento di integrazione, punto di partenza per percorsi più esigenti: ma come sfuggire al pericolo di ridursi a gestire il folklore religioso o il bisogno di sacro?

Su questi interrogativi dobbiamo misurarci per riposizionare la parrocchia in un orizzonte più spiccatamente missionario. Le molte possibili risposte partono da un’unica prospettiva: restituire alla parrocchia quella figura di Chiesa eucaristica che ne svela la natura di mistero di comunione e di missione”.

 

2) La seconda via. La più importante caratteristica nuova dovrà essere l’assunzione della mentalità missionaria: le parrocchie, non possono più essere realtà statiche che gestiscono un contesto socio religioso cattolico, ma devono diventare realtà dinamiche, per assumersi la nuova evangelizzazione di un contesto sociale e culturale mutato: i non battezzati; i battezzati rimasti “lontani” dalla Chiesa; i battezzati “sospesi”, rimasti allo stadio della prima formazione cristiana. Anzi una parrocchia rinnovata e missionaria, per non disperdere energie e concentrarsi sull’essenziale “deve” farsi carico di alcune priorità :

  • il primo annuncio, in una società sempre più scristianizzata (col conseguente primato del ministero della Parola rispetto alla celebrazione dei sacramenti);
  • l’iniziazione cristiana per fanciulli e adulti (con una nuova impostazione che comporta la soggettività della famiglia in dialogo con la parrocchia);
  • la centralità dell’esperienza eucaristica nel giorno del Signore (da difendere e promuovere anche con i giovanissimi, i giovani e le giovani coppie…);
  • la situazione degli adulti, in particolare la formazione al matrimonio e la pastorale della famiglia, del lavoro e del riposo;
  • il rinnovamento del legame con il suo territorio con una presenza caritativa, sociale e culturale non tradizionale, e in dialogo/confronto con la secolarizzazione .

 

3) Una terza via di rinnovamento è quella che riguarda le persone, perché tutti i fedeli siano protagonisti della missione delle parrocchie: laici, presbiteri, diaconi, persone consacrate; ciascuno secondo la sua vocazione e i suoi carismi particolari, che hanno senso e utilità solo se messi a disposizione dell’unica missione della Chiesa.

 

I laici.  Per i laici sono da riprendere alcune indicazioni fondamentali e “vincolanti” del magistero, dopo anni di collaborazione negli organismi di partecipazione e nelle attività pastorali, seppure realizzate con diversità di equilibri (si va dal parroco autosufficiente e/o dominatore, fino ai laici inamovibili che occupano e dirigono monarchicamente settori importanti delle parrocchie; tra i due estremi ci sono varie situazioni di collaborazione). Il Sinodo sui Laici ha chiesto un “adattamento delle strutture parrocchiali con la flessibilità ampia concessa dal diritto canonico, soprattutto promuovendo la partecipazione dei laici alle responsabilità pastorali” (C.L. n.26). Ma ciò potrà avvenire solo con una formazione vera del laicato.

La missionarietà che qualificherà i laici cristiani formati li porterà ad esercitare la loro testimonianza soprattutto nell’ambito secolare, prima che negli organismi ecclesiali: oggi la presenza qualificata negli ambiti della cultura, del lavoro, dell’azione sociale e della politica, è urgente.

 

 I presbiteri. Per quanto riguarda i presbiteri, i Vescovi italiani dicono:

“Il rinnovamento della parrocchia in prospettiva missionaria non sminuisce affatto il ruolo di presidenza del presbitero, ma chiede che egli lo eserciti nel senso evangelico del servizio a tutti, nel riconoscimento e nella valorizzazione di tutti i doni che il Signore ha diffuso nella comunità, facendo crescere la corresponsabilità.

…è richiesto anche un ripensamento dell’esercizio del ministero presbiterale e di quello del parroco. Se è finita l’epoca della parrocchia autonoma, è finito anche il tempo del parroco che pensa il suo ministero in modo isolato; se è superata la parrocchia che si limita alla cura pastorale dei credenti, anche il parroco dovrà aprirsi alle attese di non credenti e di cristiani “della soglia”.

…I sacerdoti dovranno vedersi sempre più all’interno di un presbiterio e dentro una sinfonia di ministeri e di iniziative: nella parrocchia, nella diocesi e nelle sue articolazioni. Il parroco sarà meno l’uomo del fare e dell’intervento diretto e più l’uomo della comunione; e perciò avrà cura di promuovere vocazioni, ministeri e carismi.

…Soltanto in tale quadro più ampio si possono pensare criteri di ridistribuzione del clero, immaginando la presenza sul territorio di un presbiterio, almeno zonale, dove le varie capacità e inclinazioni vengono esaltate. Sarà così possibile realizzare anche una valorizzazione delle competenze, un risparmio delle risorse e un riequilibrio dei carichi di lavoro. Istruttive in tal senso sono le esperienze delle “unità pastorali”, come già ricordato”.

“Si mantenga, per quanto possibile, anche la figura del vicario parrocchiale, ruolo importante nella pastorale giovanile e tirocinio opportuno per assumere in seguito la responsabilità di parroco.”

 

I diaconi. Altrettanto importante è definire gli ambiti ministeriali da affidare ai diaconi permanenti, secondo una figura propria e non derivata rispetto a quella del sacerdote, ma coordinata con il suo ministero, nella prospettiva dell’animazione del servizio su tutti i fronti della vita ecclesiale”. In diocesi si dovranno iniziare dei veri cammini di catechesi per far conoscere la figura teologica ed ecclesiale del diacono, con una Giornata diocesana di preghiera per la vocazione al diaconato (quest’anno sarà probabilmente la VI domenica di Pasqua).

Nella la nostra diocesi, gli altri ministri istituiti e straordinari hanno già una certa chiarezza di compiti e servizi, ma la loro diffusione quantitativa e l’ampiezza del loro mandato è a volte troppo vincolata alla soggettività dei parroci.

 

Nuovi ministeri. “Ma la missionarietà della parrocchia esige che gli spazi della pastorale si aprano anche a nuove figure ministeriali, riconoscendo compiti di responsabilità a tutte le forme di vita cristiana e a tutti i carismi che lo Spirito suscita. Figure nuove al servizio della parrocchia missionaria stanno nascendo e dovranno diffondersi: nell’ambito catechistico e in quello liturgico, nell’animazione caritativa e nella pastorale familiare, ecc. Non si tratta di fare supplenza ai ministeri ordinati, ma di promuovere la molteplicità dei doni che il Signore offre e la varietà dei servizi di cui la Chiesa ha bisogno. Una comunità con pochi ministeri non può essere attenta a situazioni tanto diverse e complesse. Solo con un laicato corresponsabile, la comunità può diventare effettivamente missionaria.

Esempi per le nostre parrocchie possono essere: i catechisti pre-battesimali e quelli per nuovi modelli di iniziazione cristiana; gli educatori stabili per  l’animazione e la gestione della pastorale giovanile (anche se abbiamo pochissimi oratori); le coppie che si dedicano alla catechesi, alla formazione dei fidanzati o ai gruppi sposi; la figura dell’economo parrocchiale o di unità pastorale, che solleva il parroco dalle pratiche amministrative; i referenti delle piccole comunità senza parroco residente, che sanno custodire gli ambienti comunitari, guidare una assemblea domenicale in attesa di presbitero o un centro di ascolto nelle case, ecc…

         Come si capisce bene le difficoltà non mancano, ma anche gli elementi di speranza: entrambi sono un appello che la nostra Chiesa è chiamata ad accogliere con urgenza e coraggio. E con la gioia che nasce dalla convinzione che il Vangelo è davvero l’annuncio che fa ardere i cuori lungo il cammino della vita di ciascuno (cfr. Luca 24, 32). Occorre quindi mettersi in ascolto di quanto lo Spirito dice oggi alla nostra Chiesa (cfr. Apocalisse 2,7) anche per bocca di Papa Francesco, – il segno dei tempi più clamoroso di questi anni della vita della Chiesa – e lasciarsi condurre per rinnovare lo slancio dell’evangelizzazione.

+Lorenzo G. Arcivescovo

20-09-2014