3° Laboratorio del Percorso formativo

3° Laboratorio del Percorso formativo promosso dalla Pastorale Sociale del Lavoro

Dal ‘RisVeglio Duemila’ N. 6/2011
 
 
Entrano nel vivo i ‘laboratori’ di formazione che si tengono a Ravenna e sono rivolti, in particolare ma non solo, ai cattolici impegnati in politica. Di seguito commentiamo il terzo laboratorio, svoltosi in Seminario. Domenica 13 febbraio alle ore 17, presso la sala dell’Azione Cattolica (via Canneti, 3 Ravenna) si terrà una assemblea pubblica di approfondimento, con un esponente nazionale (Favaro) a valle dell’emissione degli Atti, sulla 46ª Settimana Sociale di Reggio Calabria, sul tema ‘Uniti in Cristo, solidali con i fratelli’.
Il terzo ‘laboratorio’ organizzato per il 1° febbraio dalla ‘Commissione Diocesana per i problemi sociali’, ha affrontato il tema dell’integrazione culturale.Accanto a Luciano Di Buò e a padre Mario Colombo, Giovanna Nicosia, una delle socie della cooperativa RicercAzione di Faenza, ente gestore del Centro per Stranieri del Comune di Faenza.
La Nicosia ha esposto in maniera sintetica ma efficace tante delle problematiche con le quali deve confrontarsi lo straniero che, per i più svariati motivi, si trova a dover vivere, per un periodo più o meno lungo, in Italia. Ella è stata piuttosto critica nei confronti della evoluzione normativa in tema di immigrazione, attualmente peggiorativa, a suo parere, delle posizioni degli immigrati regolari. 
Dai dati, commentati da padre Colombo, è emerso che nel nostro paese risiedono, più o meno stabilmente, quasi cinque milioni di stranieri tra i quali alcune centinaia di migliaia sono irregolari o clandestini.
Il vivace, ma civile dibattito apertosi al termine degli interventi dei relatori ha dimostrato quanto tale tema sia sentito.
La risposta cattolica a tale problematica passa attraverso il modello dell’inclusione, definita come un percorso educativo e non immediato, quotidiano e non occasionale che chiede a tutti di essere protagonisti e responsabili; un percorso di libertà, ma che chiede uguaglianza e fraternità; che salvaguarda l’unità e le differenze, l’identità e l’alterità, evitando omologazioni e qualunquismi; un percorso integrale che guarda a tutto l’uomo in una prospettiva personalistica.Parole che, pur potendo essere pienamente sottoscritte, devono comunque fare i conti con una realtà assai complessa.
Le questioni sul tavolo, lo si è percepito dal tenore degli interventi, sono molte e spinose.
Esiste un diritto a immigrare?
Può uno stato regolamentare gli ingressi al fine di tutelare la propria identità culturale e religiosa contro immigrazioni massicce e incontrollate?
Fino a che punto è lecito spingersi nel tentativo di includere lo straniero quando questo non ha alcun desiderio di essere incluso, ma vuole semplicemente ricreare in una porzione del nostro territorio (si pensi alle chinatown nostrane) la propria realtà d’origine, con regole e valori propri? E che fare se, pur a tali condizioni, egli reclama la cittadinanza e la pienezza dei diritti politici?
Come fare capire a chi proviene da un paese ove non si gode di reale libertà che il nostro non è il paese di Bengodi dove esistono solo diritti e nessun dovere? Come far comprendere a chi ha fame di diritti, che la vera libertà sta non nell’indiscriminato esercizio dei diritti soggettivi, bensì nel riconoscimento della preminenza dei doveri quale strada maestra affinché l’esercizio del diritto non si faccia arbitrio?
A quali condizioni è lecito riconoscere all’immigrato la pienezza dei diritti propria del cittadino? E’ sufficiente il semplice decorso di un congruo lasso di tempo? E’ sufficiente il formale rispetto delle regole non accompagnato da un’adeguata comprensione e condivisione delle stesse?
Come sempre noi cristiani possiamo fare affidamento su uno strumento ben rodato, la dottrina sociale.Questa, se non erro, opera alcune puntualizzazioni fondamentali.
In primo luogo l’immigrato è una persona e, in quanto tale, ha il medesimo nostro valore assoluto. Quindi, ancorché irregolare o clandestino, egli ha senz’altro il diritto umano a essere nutrito, curato e vestito.
Ma la solidarietà non deve sfociare in ipocrita assistenzialismo. In un secondo momento, quindi, se egli intende restare in Italia, dovrà, se sussistono le necessarie condizioni, essere regolarizzato, acquisendo così il diritto al lavoro e i diritti sociali. Diritti che non devono necessariamente sfociare in ingiustificati privilegi che a nulla servono se non ad alimentare la xenofobia e a spingere colui che ne beneficia ad approfittarsene e a rifiutare una reale integrazione.
Per quanto riguarda i diritti politici, quali l’elettorato attivo e passivo, la questione è assai più delicata. Per potersi contribuire, nell’ambito dei principi e valori che connotano la nostra realtà culturale e che sono il frutto di secoli di lotte e sacrifici, occorrono un’appartenenza e un’integrazione assai consolidate. Non è solo questione di tempo. L’Arcivescovo di Trieste, mons. Giampaolo Crepaldi, ricorda che per poter aspirare alla pienezza dei diritti politici non è sufficiente che si impari la carta costituzionale o la lingua in uso, ma che si condividano i valori di fondo della società che si pretende di voler contribuire ad orientare.
Seguendo un percorso di questo tipo sarà forse possibile giungere a una società realmente multiculturale nel cui ambito non dovrebbero trovare spazio né le ghettizzazioni, volute o subite poco importa, né quelle omogeneizzazioni al cui interno non è più possibile scorgere alcuna reale identità culturale.
Ma per giungere a questo traguardo è indispensabile che, prima di tutto, noi che siamo chiamati ad accogliere lo straniero, chiariamo a noi stessi chi siamo, quali sono i valori e principi nei quali siamo nati e cresciuti; solo così potremo precisare la cornice dei doveri al cui interno è lecito esercitare diritti; solo così avremo ben chiaro ciò che ci riteniamo in diritto di pretendere da chi vuole venire a vivere in mezzo a noi.
 
Sirio Stampa
 
 

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