Il Signore mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai poveri
Fin dalla prima lettura, tratta da Isaia 61 (1-3.6.8-9), appare la figura di un profeta che sa di essere un “consacrato con l’unzione”, uno che appartiene al Signore, ma con una missione particolare che non è tanto frutto dei suoi desideri o della sua volontà, ma della sottomissione allo Spirito di Dio. Per questo è stata scelta questa lettura in occasione della Messa crismale dove si ripetono le promesse e gli impegni dei ministri ordinati, di noi che siamo dei chiamati e consacrati per il sacramento ricevuto, che ci ha inseriti in un presbiterio e nel clero di una Chiesa particolare.
Consacrati con un talento da investire
Vorrei però sottolineare alcuni aspetti della nostra consacrazione derivante dalla ordinazione. Eravamo già dei consacrati per il Battesimo e la Cresima, e quello è –come dice Agostino– motivo di speranza per noi, perché con esso siamo inseriti nel cammino della salvezza. Con l’Ordinazione ci viene fatto un dono dello Spirito Santo che ci arricchisce, ma ci dà anche una responsabilità nuova – e questo è un motivo di “timore” e di preoccupazione. Infatti, non possiamo dire davanti al Signore, né oggi né alla fine dei tempi, “io sono un consacrato”, quindi… Come se potessimo vantare dei diritti o dei privilegi sugli altri cristiani. Saremo invece nella posizione dei servi del Vangelo e alla fine dovremo rendere conto al padrone dei talenti ricevuti, non per la nostra autorealizzazione o per la nostra felicità individuale, ma a vantaggio della Chiesa e per la sua edificazione.
Abbiamo quindi un dono specifico, che rallegra la nostra vita e arricchisce la nostra fede, ma che non ci dà vantaggi né privilegi rispetto agli altri, non ci esime dal nostro dovere di rimanere “servi” e di cercare in questo la nostra via di santificazione.
Sottomessi allo Spirito
Perché però questo dono non sia usato male o sia sepolto come il talento del vangelo, dobbiamo ricordare che “lo Spirito del Signore” è su di noi e noi siamo chiamati a restare sotto di Lui. Con l’Ordinazione non abbiamo cambiato natura, siamo esseri umani come gli altri, siamo cristiani che camminano con tante fatiche e gioie come gli altri, che possono certo raggiungere livelli di santità anche alti, ma come tutti i cristiani. Abbiamo però una grazia a disposizione che rende la nostra vita utile alla fede e alla carità di tutti quelli che incontriamo, a patto che restiamo “dipendenti” liberamente e volontariamente dallo Spirito del Signore, che è stato invocato su di noi con l’imposizione delle mani del Vescovo e anche con la professione dei voti per i religiosi.
Sottomessi allo Spirito, significa che i nostri sentimenti, i nostri affetti, i nostri desideri li lasciamo modellare o purificare o indirizzare da Lui, a imitazione di Gesù Cristo nostro maestro e Signore. Significa anche che le nostre idee sulla fede, sulla parola di Dio, sulla Chiesa, sull’uomo, sulla morale sociale, sulla vita nascente o morente, sulla pace e sulla guerra, sulla malattia e la salute… le lasciamo modellare dal Vangelo e dal Magistero della Chiesa, non dal pensiero dominante o dai pensieri di qualche gruppo o corrente, o da qualche costruzione mentale tutta nostra.
Operatori di carità verso i poveri che evangelizziamo
Significa anche che l’agire nella Chiesa e nelle comunità cristiane che ci sono affidate come vescovo, come parroci o come collaboratori, si deve muovere nell’ortoprassi, e non solo in quell’ortodossia che ci evita errori nella fede e nella morale.
E qui abbiamo un altro aiuto dalla Parola di Dio di oggi che definisce la missione concreta del profeta consacrato, secondo Isaia, o che illustra i primi passi degli apostoli Pietro e Giovanni.
Il profeta, l’apostolo, il missionario, il ministro della Parola, agisce secondo il vangelo che annuncia, e pratica la carità verso i poveri che evangelizza.
È il Signore, dice il profeta, che “mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di grazia del Signore”, “per consolare tutti gli afflitti, per dare agli afflitti di Sion una corona invece della cenere, olio di letizia invece dell’abito da lutto, veste di lode invece di uno spirito mesto.” E Pietro davanti allo storpio fin dalla nascita dice: “Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, àlzati e cammina!”. Lo prese per la mano destra e lo sollevò. Di colpo i suoi piedi e le caviglie si rinvigorirono e, balzato in piedi, si mise a camminare; ed entrò con loro nel tempio camminando, saltando e lodando Dio”.
Questa è la prassi non solo corretta del nostro ministero, ma l’unica efficace evangelicamente, l’unica che permette alle parole, alle omelie, alle catechesi, ai consigli spirituali, agli orientamenti morali che diamo alle persone, di essere ascoltati, accolti, obbediti.
Sottomessi allo Spirito, quindi, ma anche operatori di carità.
Una carità empatica
E non basta ascoltare con pazienza e dare orientamenti per la vita, agli altri fedeli. Ma –come succede anche a noi quando ci rivolgiamo a un confratello, a un confessore, a un padre spirituale, a un amico spirituale– abbiamo tutti bisogno di una vera empatia che ci faccia sentire capiti fino in fondo e confortati, incoraggiati oppure giustamente corretti con quella correzione fraterna che aiuta a rialzarci in piedi e a camminare. Come Pietro e Giovanni che chiedono prima di tutto di guardarsi bene negli occhi e poi Pietro prende per mano lo storpio e lo solleva, che forse è il vero miracolo che anche noi possiamo fare, che la Chiesa può fare nei confronti della umanità prostrata per le ferite o bloccata nei peccati e negli errori.
È questa una sfida difficile per tutti, a iniziare da me. Ha scritto don Oreste Benzi: “Quando l’altro ti è divenuto caro, allora tu capisci che ti senti cieco in chi è cieco… ti senti affamato nello stomaco di chi ha fame, ti senti disprezzato in chi è disprezzato, ti senti reagire dentro, di fronte a chi è colpito dall’ingiustizia. Bisogna avere l’altro nel cuore. Se tu hai l’altro nel cuore, tu non hai più barriere; se l’hai nel cuore, tu non hai più paura. Praticamente noi ci difendiamo dall’altro nella misura in cui abbiamo paura dell’altro”. San Paolo verso i cristiani di Tessalonica ne è un esempio quasi insuperabile: “Così affezionati a voi, avremmo desiderato darvi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari.” (1 Tess 2,8)
La sfida dell’epidemia
In questi due anni come presbiteri e diaconi di Ravenna–Cervia siamo stati messi anche noi alla prova dall’epidemia, dalle misure sanitarie, dalle reazioni che ne sono conseguite tra noi e tra i nostri fedeli, dalle conseguenze sulla presenza alla messa e sulla partecipazione alle attività pastorali coi ragazzi, coi giovani, con gli anziani. Ma in genere come clero, diocesani e religiosi, abbiamo reagito con correttezza, equilibrio, serietà e molta carità. La gente ci ha sentiti vicini, perché abbiamo condiviso e sostenuto il loro cammino. È stata una prova che in generale ci ha rafforzato.
Il cammino sinodale: verso un nuovo modello di Chiesa
Nel frattempo, la Chiesa universale ci ha proposto il cammino sinodale che ci ha chiesto di uscire dalle solite abitudini abbastanza affievolite e di provare a reagire insieme, interrogandoci e raccontandoci come stiamo vivendo la fede, la vita di Chiesa, l’appartenenza alla parrocchia, la missione ai vicini, la testimonianza… Diverse le domande proposte, che ci hanno stimolato a cercare di aprire gli occhi su ciò che lo Spirito sta operando tra noi: quali frutti di giustizia e di santità emergono, quali resistenze e fatiche, quali idee e proposte ne vorremo trarre.
Non sembrava il momento giusto per partire con un percorso di questo tipo. Qualcuno, infatti, ha fatto fatica a muoversi e a aderire, ma chi ha iniziato a incontrarsi e a comunicare ciò che aveva a cuore, si è trovato nella situazione dello storpio al tempio: prima bloccato a lamentarsi e a chiedere che gli altri si impegnassero per lui, poi rialzato ha iniziato a camminare, con gioia. Lo scambio e la comunicazione in un clima di fede, ha fatto crescere la comunione tra le persone. Molti laici lo hanno riconosciuto apertamente. Anche noi ministri ordinati che abbiamo iniziato forse con un briciolo in più di scetticismo il cammino sinodale, abbiamo poco alla volta visto che c’è una Chiesa viva nella nostra terra, che non solo riceve passivamente i sacramenti, ma è desiderosa di partecipare.
Non abbiamo fatto miracoli, né segni straordinari. Ma il miracolo è che i Consigli diocesani, le associazioni, gli organismi, gli uffici pastorali, numerose parrocchie –chi più chi meno– si sono messi in movimento. Questo cammino semplice, a volte faticoso, simile al cammino del popolo nel deserto dove qualcuno si voltava indietro e si lasciava prendere dai rimpianti, è un cammino che ci sta dirigendo verso un nuovo modello di Chiesa. Sarà un parto lungo, ma come ci siamo rinnovati dopo il Concilio Vaticano II da tanti punti di vista, anche oggi possiamo riprendere una nuova tappa della presenza della Chiesa nel mondo contemporaneo. Una presenza attiva che ci chiederà di diventare tutti più esploratori, più sperimentatori, più trasparenti e più coraggiosi nella testimonianza, negli ambienti di vita, fuori dalle sagrestie e dagli ambienti parrocchiali.
E noi pastori siamo e saremo sempre più chiamati a stare sottomessi a questo impulso dello Spirito che ci chiede di essere davanti al gregge per guidare e trascinare; in mezzo al gregge per condividere e consolare; dietro al gregge per aspettare e riconciliare gli smarriti. Come padri, fratelli, amici.
Pregare in tempo di guerra
E infine la guerra. Come stare da pastori in questa situazione così angosciante? Come dare ascolto alla voce dello Spirito e diffondere la carità in questo tempo così disorientante?
Dobbiamo riconoscere che troppo spesso abbiamo nascosto la paura delle guerre, che ci sono sempre, dimenticandole, aiutati dai mass media che ci fanno vedere solo alcune parti del mondo. Questa volta la guerra è vicina e vediamo ogni giorno le distruzioni, ne sentiamo i racconti e le lacrime, ci sentiamo mossi da atteggiamenti contrastanti: è un caso di legittima difesa? Vale più la vita o la libertà? Intervenire o aiutare? Se continuerà, ci saranno uomini che uccideranno altri uomini…
Credo che, come pastori, dobbiamo ricordare a tutti che il demone della guerra è il più potente e distruttivo, agisce al contrario di Dio Creatore, semina odio e morte, e non amore e giustizia. Contro questo demone che può entrare nel cuore di molti, anche nei nostri, abbiamo l’arma della preghiera, dell’unione con il Signore Gesù, dell’invocazione alla potenza dello Spirito di Dio che può cambiare il senso della storia a cominciare dalla conversione dei cuori. Più dei militari, più dei diplomatici, possiamo fare tanto, con la preghiera per chiedere la carità, il perdono, la giustizia, la riconciliazione, la riparazione del danno, anche se le vite perse non ritorneranno. Possiamo guardare al crocifisso che continua a soffrire nel suo Corpo, nella sua carne, tutte le ferite che gli esseri umani si infliggono a vicenda e chiedere a Lui che allevi i dolori dei colpiti, dei profughi, degli impauriti, degli spogliati ed esiliati. E di riuscire ad attivare tutte le forme possibili di accoglienza e aiuto, di carità verso di loro.
Ma chiediamo anche per noi la forza di contrastare la guerra: di demitizzarla, di smascherarla in tutta la sua follia, di rivelarne l’inganno, l’inutilità e la dannosità per tutti, anche per chi la vincesse. E poi è sacrilega, è contro il disegno di Dio, è la prima conseguenza del peccato che Caino uccida Abele. Il Signore liberi le menti e i cuori occupati dal demone “paranoico” della guerra! Chiediamo perdono per chi è responsabile di violenze e chiediamo la loro conversione!
Ma questa preghiera per essere efficace ha bisogno di fede: se crediamo che nulla è impossibile a Dio, pregheremo con efficacia, sapendo che queste intenzioni sono le stesse del cuore di Dio, che è Padre di tutti e fa sorgere il suo sole sui buoni e sui cattivi, perché vuole tutti salvi.
E nell’avvicinarsi della Pasqua ricordiamo anche che la sua risposta alle nostre pratiche di morte è la risurrezione, del suo Figlio e di tutti noi in Lui.
Ma ricordiamo anche che verrà il Giudizio e chi ha vissuto nell’ingiustizia e nella violenza contro i fratelli, riceverà le conseguenze del male che ha scelto. E ci sarà una giustizia finale che ripagherà tutti i disprezzati e i colpiti a morte e li riabiliterà nella gioia senza fine.
Il Signore Gesù Cristo ascolti la nostra preghiera e quella di sua Madre, la regina della pace.
+Lorenzo, Arcivescovo