Dal ‘RisVeglio Duemila’ N. 20/2013
Di alcuni periodi della nostra storia molti preferiscono non sapere o fingono di essersi dimenticati.
E’ così anche per i tristemente famosi anni di piombo.
Il commissario Luigi Calabresi, assassinato il 17 maggio del 1972, può essere considerato un martire di questa buia pagina del nostro recente passato.
Due colpi di pistola alle spalle. I materiali esecutori condizionati anche da una sapiente campagna di demonizzazione e delegittimazione alla quale, voglio credere inconsapevolmente, contribuirono non pochi sedicenti intellettuali, molti dei quali ancora oggi venerati come maitre à penser.
Per amore della verità, non per alimentare il rancore, si dovrebbero leggere le vere e proprie apologie di reato che, in quei tempi, potevano impunemente scriversi su certe testate. Bisognerebbe leggere l’immotivato j’accuse al povero Calabresi, sottoscritto dai più bei nomi (757!) della cultura laicista dell’epoca, trasversalmente egemone.
Perdonare non significa dimenticare. Anzi il perdono è tanto più vero, quanto più è costretto a confrontarsi, giorno dopo giorno, con il doloroso ricordo dell’ingiustizia subita.
Una giovane moglie e tre bimbi derubati del marito, del padre.
Ma, fin da subito, quella famiglia depredata spiazzò tutti, decidendo di chiamarsi fuori dalla logica dell’odio.
Basti dire che il primo pensiero di Gemma, la mamma, non appena letto il labiale del suo parroco, messaggero del terribile annuncio, al quale la voce s’era spenta in gola, fu di pregare per la famiglia dei carnefici del suo Luigi.
Nella serata del 14 maggio scorso, a Ravenna in una gremita chiesa di San Biagio, Gemma ha raccontato come questo gesto, a viste umane incomprensibile, le sia stato quasi imposto dall’irruzione di Dio nella sua vita.
Sì, perché, fin dai primissimi istanti successivi alla tragedia Gemma ha ricevuto la Grazia di sperimentare la viva presenza di Dio in lei. In lei che fino ad allora era stata, sì, una cattolica praticante, ma che solo ora comprendeva e viveva veramente la verità e la ricchezza della fede nella quale era stata educata.
Proprio l’impulso a pregare per i carnefici, le fece capire che Dio le chiedeva di divenire una testimone e un canale attraverso il quale riversare il Suo perdono, anche su coloro che più hanno sbagliato. Aiutandola, al contempo, a essere a sua volta sempre più capace di perdonare.
Un’esperienza di dolore, la sua, che le ha insegnato a percepire e condividere la sofferenza del prossimo. A capire che il dolore può derivare non solo dal male subito, ma anche dalla consapevolezza e dal pentimento per quello commesso. E a fare l’esperienza, sotto certi aspetti paradossale, della valenza unitiva della sofferenza, che può quindi divenire luogo di incontro e di comunione tra la vittima e il carnefice pentito.
Una pedagogia, quella usata dal Signore con Gemma, che prevedeva anche la preghiera. Bellissima la sua testimonianza sulle ore notturne passate a pregare, magari a favore di sconosciuti con i quali ha così sentito di entrare in comunione. E ancor più toccante il passaggio nel quale ci ha raccontato delle tante persone che, lungo gli anni, le hanno testimoniato di aver pregato per la sua famiglia. Altra misteriosa forma di comunione cristiana.
Come racconta Gemma in un suo libro, nel 1966 un giovane Luigi Calabresi, allora allievo commissario di PS, in un intervento pubblico ebbe a dire ” avrei molti altri modi di guadagnarmi uno stipendio, ma sono affascinato dall’esperienza che può fare in polizia uno come me, che vuol vivere una vita profondamente, integralmente cristiana ‘ darò a mia moglie (io non so chi è, come si chiama, dove vive, ma so che in qualche posto vive) un amore cristiano; e avremo subito figli, e saranno molti e li cresceremo ”.
Mi piace pensare che un uomo così, da lassù, nonostante la temporanea, forzata separazione, abbia guardato compiaciuto il cammino percorso dalla compagna di troppi pochi anni terreni e dai loro tre figli. Nell’attesa di poterli reincontrare, un giorno.
Sirio Stampa