La donna nella religione musulmana
Dal ‘RisVeglio Duemila’ N. 14/2011
Commentiamo l’ultimo Martedì di Sant’Apollinare, tenutosi lo scorso 29 marzo al Cinema Corso di Ravenna.
La religione musulmana, al tempo della sua prima diffusione (Penisola Arabica 650 d. C.) ha portato un’innovazione sociale, anche riguardo alla posizione della donna, in seguito, edulcorata dalla resistenza di tradizioni e pratiche preesistenti, nonché dalla ‘contaminazione’ con civiltà radicalmente patriarcali, come l’impero sassanide (persiano). E’ questa la tesi di Marisa Iannucci, artista ravennate, convertita all’Islam fin dai suoi studi sull’architettura islamica (in particolare la moschea di Roma), studiosa di civiltà dell’Oriente e del Mediterraneo, mediatrice culturale, nonché presidente della sede ravennate dell’Associazione Life (Lega islamica femminile europea).
A partire da una lettura al femminile di brani estratti dalle fonti principali dell’Islam, il Corano e la Sunna, ossia il Corpus di tradizioni del profeta Maometto, costituenti, altresì, le fonti della shar’ia (la legge divina di per sé inintelligibile dagli uomini, se non attraverso la fiqh, l’interpretazione giurisprudenziale), la Iannucci ha inteso tratteggiare la figura della donna nella prima comunità musulmana, portando come esempi proprio due delle sette mogli di Maometto. Khadija, la prima, più anziana del profeta, imprenditrice della Mecca, ebbe un ruolo anche come sua principale fonte di sostentamento ed è considerata la prima credente dell’Islam: è chiamata la ‘madre dei credenti’. Haisha, nota come la ‘moglie bambina’, perché la più giovane, unica sposa vergine del profeta, è la figura di donna sapiente, giurisperita, trasmettitrice dei detti di Maometto, dunque dotata di autorevolezza nella prima comunità, anche politica. Emergerebbe, da questi profili remoti (VII sec. d.C.) un quadro irenico della condizione femminile, avvalorato da citazioni del Corano che riconoscono, almeno in teoria, a uomini e donne pari responsabilità sociali, finanche il diritto al voto, secondo un’interpretazione controversa, però: si noti, infatti, che in molti paesi a maggioranza islamica il voto alle donne è di recente istituzione (salvo per l’Egitto, 1927), mentre in Arabia Saudita è tuttora negato. La donna ha un diritto di eredità, avendo capacità giuridica, nonché alla dote, di cui dispone autonomamente per i propri bisogni personali, poiché alla famiglia provvede solo l’uomo, salvo diversa pattuizione. Il matrimonio musulmano è un contratto consensuale ‘ se avviene in età precoce, però, e, così, per le vergini, titolare della volontà matrimoniale è il tutore che esercita un potere di costrizione ‘, prevede la poligamia (salvo clausole di esclusione), certo limitata a quattro mogli, comunque, lesiva, a modesto avviso di chi scrive, della dignità femminile: il primo, peraltro, a derogare fu Maometto che ne ebbe sette, senza contare le concubine! Il divorzio è, naturalmente, ammesso trattandosi di un mero contratto, ma, mentre la donna per divorziare deve rivolgersi al tribunale, l’uomo può, più agevolmente, ripudiare la moglie con una semplice dichiarazione; in tutti i casi, peraltro, la tutela dei figli minori resta sempre in capo all’uomo, che, del resto, è l’unico indiscusso titolare della loro educazione (alla madre spetta la mera cura) e di ogni decisione, essendone il solo rappresentante legale. Ecco che l’irenica immagine teorica della condizione della donna s’infrange con una più fosca attuale realtà di subalternità femminile che la Iannucci imputa a una differente modulazione dell’Islam rapportata al substrato antropologico-storico-sociale in cui si radica. Sorge, però, un interrogativo, affiorato anche nell’ampio dibattito: perché proprio i paesi permeati dall’Islam, appaiono, per lo più come bloccati nella loro evoluzione sociale, come chiusi in un loro orizzonte, stentano a riconoscere i diritti umani, sono a continuo rischio di teocrazia?
Elena Soetje Baldini
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