
Caritas: Il limite al fare di più
Dal ‘RisVeglio Duemila’ N. 39/2013
Anche chi opera negli enti assistenziali non deve cedere alla tentazione di onnipotenza
La tentazione del voler fare sempre di più, senza porsi mai un limite, può cogliere chiunque in qualsiasi luogo, circostanza o momento. Può capitare a un imprenditore di successo, a una struttura scolastica o sanitaria, a un capo carismatico laico o religioso. Cordate di industrie che non reggono il mercato, campus universitari necessitanti fondi esorbitanti e mai sufficienti, seminari giganteschi e desolatamente vuoti, monumenti al personaggio storico di turno che spesso vengono atterrati e distrutti al volgere degli animi. E che dire della corsa agli armamenti? Fino a dove? Fino a quando?
In famiglia la stessa cosa: occorre un’auto! Ma la usa il marito. E la moglie come fa? Un’altra! E i figli li lasciamo a piedi? E allora occorrono i garage. E i telefonini? Uno per me, uno per te, uno per loro. E quelli per il lavoro? Uno per me, uno per te’ Uno stipendio in casa non basta per andare avanti. Qualcuno ancora fortunato ha il coniuge occupato. Ma anche chi ha figli al lavoro, arranca per arrivare ad esaudire tutti quei desideri che assumono i contorni della necessità.
Anche nella carità possiamo essere tentati dal miraggio di risolvere tutti i problemi che sembrano aumentare man mano che vengono risolti. Un dormitorio con 10 posti. Presto si riempie. Allora via a 20. Pieno anche quello. Allora due! Ma non basta! Tre! Niente da fare’
E le mense. E i pacchi viveri. E i magazzini per conservare i cibi. E i mobili dove li mettiamo? Non basta un magazzino di 500 metri quadri. Allora ne vogliamo uno da mille! E i volontari per fare tutti questi lavori? 40, 50, 200 e poi? Occorrono delle persone esperte stipendiate per consentire la continuità dei servizi. Bene: una, due, dieci, quante?
Poi ci si accorge che un certo tipo di prodotti non serve più, che un certo titolo di studio non è più considerato attuale, che una struttura caritativa diventa ingestibile, che i conventi non hanno più i religiosi per i quali erano stati pensati e costruiti, che il personale assorbe le risorse e non rimane più niente per i servizi per i quali è stato assunto.
Ogni cosa buona, se perde i contorni dell’equilibrio, dell’essere a misura d’uomo, di rispondere in modo semplice ai bisogni essenziali, diventa una caricatura di se stessa, un peso, un carrozzone ingestibile. Bisogna sapersi fermare in tempo, riconoscere i propri limiti, cercare l’essenzialità, agire con prudenza non assecondando le voglie o i sogni, per quanto belli e buoni siano, ma riflettere con animo sereno e distaccato. E farsi una domanda: io uso le cose o mi lego tanto ad esse che mi faccio usare da loro e ne divento schiavo?
Ricordiamo la parabola del ricco possidente che si propone di demolire i propri magazzini e di costruirne altri più grandi per custodire il raccolto di una annata particolarmente felice, al quale il Signore ricorda che tutto è passeggero, compresa la propria vita (Lc 12, 16-21). Il Vangelo continua riportando le parole di Gesù: ‘Per questo io vi dico: non preoccupatevi per la vita, di quello che mangerete; né per il corpo, di quello che indosserete’ non state in ansia: di tutte queste cose vanno in cerca i pagani di questo mondo; ma il Padre vostro sa che ne avete bisogno.
Cercate piuttosto il suo regno, e queste cose vi saranno date in aggiunta’. E qualcuno potrebbe dire: ma così c’è la scusa per essere pigri e disinteressarsi degli altri! Certo, se uno non legge anche le frasi successive’: ‘Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli’ Perché, dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore’ (Lc 12, 22- 34 passim).
E noi, dove abbiamo il nostro tesoro?
Don Alberto Brunelli
Direttore della Caritas diocesana