Dal “RisVeglio Duemila” N. 27/2015
Sono trascorsi poco più di dieci anni ma la vitalità di Silvia e Massimo è sempre la stessa; durante l’intervista, ogni tanto si affaccia un nipote, oppure bisogna risolvere un problema con una delle persone che assistono in questo periodo. E’ la quotidianità della Casa Famiglia “San Benedetto” della Comunità Papa Giovanni XXIII, vicina alla chiesa di Gambellara, una icona della carità e di quel Cristo che, attraverso ognuno di noi, si fa prossimo di chi invoca aiuto.
Silvia e Massimo, quando è stata inaugurata la Casa Famiglia San Benedetto e che ricordi avete di quel giorno?
“Era il 18 maggio 2005 e il ricordo più caro che abbiamo – oltre alla presenza dell’allora arcivescovo mons. Verucchi, di don Oreste Benzi, di don Paolo Babini e don Alberto Brunelli – è legato all’avere avuto con noi don Giuseppe Zaccagnini, che ci è stato sempre vicino, fin da quando abitavamo a Villanova. In quell’occasione don Benzi confermò la sua profonda devozione verso i superiori, in quel caso l’arcivescovo. Ci ripeteva: ‘Noi senza la Chiesa non potremmo esistere, anche per questo dobbiamo una continua obbedienza al Vescovo e, di conseguenza, al nostro parroco’”
Come è nata in voi due l’idea di aderire alla comunità Papa Giovanni XXIII e di aprire una Casa Famiglia?
Cercavamo un aiuto e un sostegno all’esperienza molto impegnativa di affidamento familiare che stavamo vivendo. In quel periodo già facevamo catechismo, avevamo fondato un gruppo famiglia a Villanova, facevamo volontariato al Ceis… tuttavia ci chiedevamo ‘ma la nostra fede è tutta qui? Come viverla in modo più radicale, come le prime comunità cristiane? (il riferimento è ad Atti 2, 42-47). A un corso abbiamo incontrato persone che già aderivano alla Papa Giovanni e presto abbiamo capito che il Signore aveva preparato per noi, come via di conversione, la ‘condivisione diretta’, ovvero mettere la propria vita al fianco di chi vive un momento di difficoltà. Grazie alla disponibilità di mons. Verucchi, all’impegno di don Benzi e all’aiuto di enti, persone, abbiamo poi aperto questa Casa e avviato il nostro cammino”.
In questi dieci anni quante persone avete accolto, che problematiche avevano e quali ricordi, testimonianze vi hanno lasciato?
“Abbiamo accolto poco più di cinquanta persone, con varie difficoltà: disabilità fisica, psichica; c’era chi doveva fare reinserimento sociale dopo un periodo di recupero, madri con i bambini, padri con i figli minorenni, ragazze uscite dalla schiavitù della prostituzione, detenuti che finivano qui di scontare la pena alternativa al carcere, uomini e donne senza fissa dimora. Provenivano dall’Italia, ma anche da tanti paesi esteri: Albania, Romania, diversi stati africani… In questi anni abbiamo accompagnato sette persone all’incontro con il Padre e ciascuna di loro, in un modo speciale, ci ha lasciato un’eredità spirituale. Ogni affido, breve o lungo che sia, è per noi una ricchezza umana: non è il tempo che fa la differenza, ma la qualità del legame che si crea. Un esempio: un diciassettenne se ne andò da qui, dopo poco tempo… Ebbene, dopo tante traversie (anche il carcere) un giorno ci ha richiamato e si è deciso ad avviare un percorso di recupero. Ora lavora e, nel tempo libero, fa volontariato in una casa della Papa Giovanni”,
Quali sono gli ostacoli principali a vivere in una famiglia così eterogenea e quali, invece, le risorse che vi sostengono?
“La difficoltà maggiore è restare in ascolto delle esigenze di ciascuno, quelle espresse e quelle non espresse. Un aiuto però ci viene da don Benzi: egli sapeva ascoltare e valorizzare al meglio ogni persona, comprendeva le lacerazioni, anche profonde, di chi aveva davanti e lo faceva con lo sguardo del Signore, poi rilanciava oltre, trasmettendo speranza, fiducia e dando alla persona una nuova opportunità. Una risorsa dell’eterogeneità è che ciascuno può offrire i propri carismi e viversi come un ono per gli altri. Ci aiutano anche la preghiera, personale e di coppia in particolare, e il sentirsi parte di una comunità che ci sostiene, così come lo fanno tanti amici e i parroci che si sono fin qui succeduti (oltre a don Paolo, don Antonio Ferrari e ora don Gabriel Kakpo)”.
Oggi da chi è composta la vostra Casa Famiglia e su quali aiuti potete contare, considerando anche che entrambi non lavorate?
“Attualmente siamo in undici e non potremmo essere di più. Con noi c’è nostra figlia, c’è un nucleo composto da madre e quattro figlie e poi ci sono alcuni adulti. La Comunità Papa Giovanni XXIII ha una cassa comune e ci mette ogni anno a disposizione una cifra, in base a un bilancio preventivo. Ci riforniamo dello stretto necessario e, inoltre, per l’abbigliamento e per i generi alimentari contiamo sulla provvidenza: gli abitanti di Gambellara, ma non solo loro, ci riforniscono di tante cose, dalle uova alla verdura alla frutta, forse perché riconoscono quel pochino di bene che facciamo…”.
Come trascorre una giornata alla Casa Famiglia?
“Come in tutte le altre famiglie: gli adulti vanno a lavorare, gli altri vanno a scuola, mentre in estate frequentano i centri estivi, i Grest, o fanno i campi scuola. Tutti, in base ai propri carismi, collaborano alle faccende domestiche. Ogni quindici giorni abbiamo un incontro personale con gli adulti per fare il punto della situazione. In questi anni abbiamo assistito anche a dei bei percorsi di fede”.
Infine, uno sguardo a don Oreste Benzi: che ricordi avete di lui e quale è, a vostro parere, l’eredità più grande che vi ha lasciato?
“Ci ha lasciato innanzitutto la sua grande fede in Gesù Cristo e il saper vedere il buono nel fratello che aveva di fronte. In questo egli richiama quanto scrive Papa Francesco nella sua ultima enciclica, evidenziando l’immensa dignità di ogni essere umano. ‘L’uomo non è il suo errore’, ci ripeteva, così come ci insegnava il valore della preghiera, quando diceva: ‘Per stare in piedi bisogna saper stare in ginocchio’. Don Benzi ci ha insegnato a rafforzare la dimensione del noi, a essere dono, ci ha fatto capire che siamo una sola, grande famiglia umana benedetta dal Signore”.
Fabrizio Casanova








