Omelia della Messa Crismale – 12 aprile 2017

12-04-2017

Omelia della Messa Crismale

Mercoledì 12 aprile 2017

Cari fratelli presbiteri,

abbiamo ascoltato una parola forte dal profeta Geremia: “Maledetto l’uomo che confida nell’uomo e pone nella carne il suo sostegno, allontanando il suo cuore dal Signore”. Ma abbiamo anche sentito: “Benedetto l’uomo che confida nel Signore e il Signore è la sua fiducia” (Ger 17, 5-10).

I due celibati

Allontanare o avvicinare il “cuore” al Signore dipende da noi. Nel primo caso facciamo l’esperienza del deserto, della terra di salsedine, dove non c’è vita. Nel secondo caso, un corso d’acqua viva ci fa rimanere sempre verdi; anche nei momenti di siccità non si smette di dare frutti. Si può applicare questa immagine al nostro celibato. Infatti esistono due tipi di celibato: uno è quello dagli “eunuchi” (Mt 19,12), l’altro è il celibato per il Regno dei Cieli. Il primo può essere vissuto come uno sforzo di volontà, come un impegno da mantenere con senso del dovere, come una necessità legata al ruolo del prete che rimane così più libero per la sua molteplice attività. O, peggio, come una specie di prezzo da pagare per entrare nello stato sacerdotale. Il rischio è che si confidi solo sulle proprie forze, con un pericolo notevole di infedeltà e di contro-testimonianza. Una vita solitaria e senza il dono sincero di sé diventa fredda, egocentrica, aperta a possibili deviazioni alla ricerca di una pienezza che non si trova nell’attaccamento ai beni materiali, né nella dipendenza affettiva o nella dominazione egoistica di qualche persona, giovane o adulta, oppure nelle nuove forme di dipendenza da internet (una trappola più che una rete) o dal gioco d’azzardo compulsivo.

L’amore insomma è un’altra cosa, anche nella vita del prete.

Infatti se ci lasciamo penetrare dalla grazia e dalla gioia di essere scelti personalmente da Gesù Cristo e rispondiamo con tutto il cuore a Lui, non ad una legge ecclesiastica o a un dovere, abbiamo la possibilità straordinaria di diventare fecondi, di trasmettere nelle nostre relazioni quell’amore gratuito che ci viene donato ogni giorno, ogni ora, da colui che ci ha prima amato e poi chiamato a seguirlo.

Dopo la sua risurrezione, Gesù pone a Pietro la fondamentale domanda sull’amore: «Simone di Giovanni, mi vuoi bene tu più di costoro?». E alla risposta di Pietro segue l’affidamento della missione: «Pasci i miei agnelli» (Gv 21,15-19). Con un atto di libertà del Signore Gesù siamo stati scelti in mezzo al Popolo di Dio, per pura grazia, senza nostro merito, né desiderio; e con una decisione altrettanto libera possiamo dedicarci spirito, anima e corpo a Lui, e contemporaneamente alla sua Chiesa, perché il mondo abbia la Vita. Più si ama la Chiesa servendola nella diocesi, nelle parrocchie, nella gente, nei poveri e nei piccoli che ci sono affidati, più cresce in noi l’amore forte e vivo del Cristo. E viceversa: l’ascolto orante della sua Parola, la celebrazione fedele e intensa dell’ Eucaristia, la frequentazione del sacramento della penitenza, l’unità e l’amicizia coi fratelli presbiteri…, ci fanno sentire la presenza dell’amore di Cristo in noi e ci rendono pastori efficaci, testimoni che toccano i cuori e le vite delle persone. «Siamo vostri pastori (pascimus vobis), con voi siamo nutriti (pascimur vobiscum). Il Signore ci dia la forza di amarvi a tal punto da poter morire per voi, o di fatto o col cuore (aut effectu aut affectu)», scriveva S. Agostino.

I due celibati sono davanti a noi, possiamo e dobbiamo scegliere: o vivere il dono posto nei nostri cuori o lasciarci intiepidire e deviare verso il deserto della sterilità.

Il cuore umano è inaffidabile

Ma sulla nostra decisione esistenziale grava un ostacolo. Dice Geremia: “Niente è più infido del cuore e difficilmente guarisce! Chi lo può conoscere?”. Anche Geremia era un celibe, dedicato alla Parola di Dio, sedotto dal Signore per essere annuncio vivente con la sua stessa esistenza. Sapeva di cosa parlava. Il cuore umano è fragile, è inaffidabile, è poco conosciuto anche da noi stessi; se viene ferito difficilmente guarisce senza che rimangano cicatrici profonde. Anche nel celibato vissuto per il Regno, nella piena sequela di Cristo, nella dedizione sponsale al suo Corpo la Chiesa, nell’attesa della pienezza futura, – e forse soprattutto nel celibato – si sperimenta il dramma della libertà, che può sempre decidere di soddisfare “i desideri della carne” che sono contrari ai “desideri dello Spirito” di Dio (Gal 5,13-25). Anzi Paolo nella lettera ai Galati, intuisce che nella persona umana in generale c’è una lotta perenne tra desideri dell’uomo decaduto e peccatore e i desideri dello Spirito di Dio messi nel suo cuore, cosicché il cuore umano si trova diviso e l’uomo non fa quello che vorrebbe.

Lo Spirito, la rinuncia, il Sacramento

È dunque impossibile la fedeltà, la dedizione totale, l’appartenenza al solo Signore senza compromessi? «Ciò che è impossibile agli uomini, è possibile a Dio» (Lc 18,27), dice Gesù ai discepoli, scoraggiati davanti alle esigenze della sequela. E proprio a cominciare dalla Risurrezione, col dono dello Spirito santo, inizia la storia del celibato per il Regno, dentro la vita della Chiesa. Una novità storica che si affermerà lentamente, che coinvolgerà i primi missionari, le vergini, i monaci, e più tardi i vescovi e i presbiteri. È un dono, un carisma speciale dato solo ad alcuni, dallo Spirito del Risorto che permette di vivere nella castità e di testimoniare che Dio solo basta, nonostante le difficoltà e le fragilità umane che possono insidiarlo. Lo stesso Paolo, celibe (1 Cor 7,7: Vorrei che tutti fossero come me; ma ciascuno ha il proprio dono da Dio, chi in un modo, chi in un altro), prima ricorda che la libertà ci è data affinché nell’amore siamo a servizio gli uni degli altri, che è la pienezza della legge e del precetto fondamentale. Poi indica la via necessaria per raggiungere questo obiettivo: “Camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri della carne” e più avanti: “Quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi desideri”. Paolo non nasconde l’aspetto drammatico della rinuncia ai desideri egoistici e distruttivi che albergano nel cuore della persona, ma ha piena fiducia che con questo strappo, con questa crocifissione, si possa camminare secondo lo Spirito, vivendo dello Spirito.

“Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato, e mi ha mandato ad annunciare ai poveri un lieto messaggio” (Lc 4,18). Gesù ha fatto risuonare anche in questa Messa crismale nel nostro cuore di sacerdoti le parole che ha pronunciato nella sinagoga di Nazareth. E qui nasce per noi una domanda capitale sia per il celibato che per tutto il nostro ministero: nella mia esperienza di fede, durante questi anni di vita sacerdotale, ho ricevuto la rivelazione della presenza dello Spirito di Cristo? Ci sono stati momenti, esperienze, eventi, persone che me lo hanno fatto sentire operante in me e nella nostra Chiesa? Ho sentito la sua spinta a pregare e ad agire in un modo forte e nuovo, rispetto ai miei desideri umani? Perché è in questa esperienza viva dello Spirito che il sacramento dell’Ordine mi configura a Cristo Pastore e mi plasma il cuore. Il sacramento ricevuto con l’imposizione delle mani del vescovo, non è un sigillo freddo e stabile come un marchio impresso sulla materia inerte, è una forza dinamica e sempre crescente, un fonte di ispirazione, una sapienza creatrice, un amore che fa appassionare, è la presenza viva e particolare dello Spirito santo! “Per questo motivo – dice Paolo a Timoteo – ti ricordo di ravvivare il dono di Dio, che è in te mediante l’imposizione delle mie mani. Dio infatti non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza. Non vergognarti dunque di dare testimonianza al Signore nostro, né di me, che sono in carcere per lui; ma, con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo” (2Tm 1,6-8).

La lotta, le sconfitte, la riparazione

Sì, lo Spirito del Signore è il grande protagonista della nostra vita spirituale. Egli crea in noi il “cuore nuovo”, lo anima e lo guida con la legge nuova della carità, della carità pastorale. È la coscienza di questo dono che ci infonde la fiducia e ci sostiene nella lotta interiore, nelle difficoltà, nelle tentazioni, nelle debolezze che incontriamo sul cammino spirituale.

A questo proposito, lasciatemi riprendere alla lettera quello che ho detto nell’omelia della prima messa crismale qui a Ravenna.

Il nostro ministero ci esalta e ci riempie di timore contemporaneamente. Noi sappiamo bene che siamo portatori di questo tesoro in vasi di argilla. E la richiesta del Signore che non siamo puri funzionari del sacro, ma testimoni in prima persona di quello che predichiamo, ci mette in imbarazzo. Come Pietro la notte dell’arresto di Gesù, sperimentiamo anche noi l’infedeltà dopo l’entusiasmo iniziale, gli allontanamenti da lui, il peccato e la fragilità, e finalmente anche il rimorso sotto il suo sguardo liberatore. 

Da cristiani maturi sappiamo però anche assumerci le nostre responsabilità; riparare il danno fatto; tirare le conseguenze dai nostri atti sbagliati e fare le scelte opportune perché il ministero della Chiesa non sia danneggiato e i deboli nella fede non siano offesi, ostacolati nel cammino. 

Come i sacerdoti dell’antica alleanza dobbiamo sempre offrire prima per i nostri peccati che per quelli del popolo. Ma accogliamo anche con gioia e riconoscenza, l’invito di Gesù a convertirci, a lasciarci riconfermare nella fede da Pietro e dai suoi successori, a rinnovare la dichiarazione di amore per lui, il Pastore buono, che ci ha affidato i suoi agnelli e le sue pecore.

La santificazione nel celibato: lo Spirito e le 4 amicizie

Ricordiamo le parole di Giovanni Paolo II, un grande santo, un grande pastore, un grande testimone: «La vocazione sacerdotale è essenzialmente una chiamata alla santità, nella forma che scaturisce dal sacramento dell’Ordine. La santità è intimità con Dio, è imitazione di Cristo, povero, casto e umile; è amore senza riserve alle anime e donazione al loro vero bene; è amore alla Chiesa che è santa e ci vuole santi… Mediante l’Ordinazione, carissimi, avete ricevuto lo stesso Spirito di Cristo, che vi rende simili a Lui… Questa intima comunione con lo Spirito di Cristo, mentre garantisce l’efficacia dell’azione sacramentale che voi ponete in persona Christi, chiede anche di esprimersi nel fervore della preghiera, nella coerenza della vita, nella carità pastorale di un ministero instancabilmente proteso alla salvezza dei fratelli. Chiede, in una parola, la vostra personale santificazione» (Omelia, 9 ottobre 1984).

Ma a questi suggerimenti indispensabili per la vita sacerdotale, io aggiungerei che i preti oggi più che ieri hanno anche bisogno di amicizie forti, sane, con persone mature che vivano la loro vocazione serenamente. Non ci sono utili invece amicizie particolari ed esclusive né con donne, né con ragazze o ragazzi. Vedrei invece necessarie quattro amicizie, perché il prete viva bene il celibato in un cammino di santità.

La prima amicizia necessaria è con almeno un gruppo di fratelli nel sacerdozio: qualcuno con cui confidarsi, a cui dare e chiedere aiuto e correzione fraterna quando ce n’è bisogno, sempre disponibili all’ascolto reciproco a qualunque ora, con cui poter parlare di tutto senza cadere nelle chiacchiere e nelle malignità che sono tentazioni del diavolo, il grande divisore anche del clero.

La seconda amicizia dovrebbe essere con il gruppo di sposi della parrocchia, – magari con le famiglie dei diaconi se ci sono –, che con la loro storia di coppia, con l’esperienza dei figli, con la conciliazione dei tempi del lavoro e della famiglia, con le crisi superate e trasformate in passi in avanti, con il loro modo di interpretare e applicare la parola di Dio a se stessi, possono essere un aiuto vocazionale formidabile. Quanto c’è da imparare da parte di un prete dalla vocazione e dalla vita cristiana vissuta bene dalle famiglie!

La terza amicizia che vi consiglio è con un monastero femminile. La loro preghiera regolare, la loro vita comune con tutto il sacrificio che esige, la fede vissuta secondo la spiritualità propria del loro carisma e arricchita dal genio femminile, sono un esempio e un sostegno per la vita spirituale del prete, una esperienza sana di amicizia femminile, oltre alla garanzia che la loro intercessione andrà a vantaggio del ministero pastorale.

La quarta amicizia, la più liberante, è con i poveri e con quelli che si trovano nel dolore. Qui la carità pastorale diventa difficile se si accetta di entrare in dialogo con loro, ma di solito è più quello che si riceve di quello che si può dare. Avere i poveri, i malati come amici ci dà la sicurezza che ci accoglieranno nel Regno dei cieli e già ora ci insegna ad amare in modo maturo, cioè gratuito e capace di abbassarsi e servire.

La liturgia stessa con i suoi gesti simbolici ci indirizza e ci educa ad esprimere i nostri affetti: al prete chiede di baciare solo l’altare e il libro del Vangelo, segni di Cristo; a scambiare abbracci solo per darsi un segno della pace di Cristo; a lavare e accarezzare solo i piedi dei poveri, il giovedì santo, come fece Maria di Betania a Gesù.

Lui solo cerchi il nostro cuore, a Lui solo si avvicini con fiducia, da Lui solo si lasci amare.

Ecco l’augurio che ci facciamo con l’impegno a mantenere le promesse della nostra ordinazione che fra poco rinnoveremo.

+ Lorenzo, arcivescovo