Omelia «Messa di Dante» del Card. José Tolentino de Mendonça. Celebrazione Eucaristica nel 699° annuale della morte di Dante Alighieri

Omelia «Messa di Dante» del Card. José Tolentino de Mendonça
Celebrazione Eucaristica nell’ambito del 699° annuale della morte di Dante Alighieri
Basilica di San Francesco, Ravenna

Nel Vangelo di oggi, in questo impressionante affresco sul «regno dei cieli» che Gesù creativamente dichiara «simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi», è possibile distinguere due fili esistenziali che, intrecciati, tessono la trama della nostra umanità e che ci permettono di regolare i conti con la nostra vita in profondità. Vale a dire il filo della memoria e quello della dimenticanza. È vero che sia uno sia l’altro ci richiedono un lavoro sincero, alle volte arduo, ma fondamentale. Noi siamo ciò che ricordiamo e ciò che dimentichiamo, chi ricordiamo e chi dimentichiamo, il bene e il male che ci sforziamo di mantenere vivo o di cancellare. Nella memoria e nella dimenticanza si gioca così l’impatto del Regno in noi, si attiva o blocca la circolazione della Grazia, si concretizza o no l’esperienza del perdono e della pace. Per esempio, la lingua custodisce il fatto che memoria e dimenticanza non si limitino a operazioni esclusivamente mentali, come segnalato dai verbi “rammentare” e “dimenticare”, ma coinvolgono l’uomo intero, il suo cuore. Si dice infatti anche: “ricordare”, “scordare”, cioè “avere a cuore”, “cancellare dal cuore”. Il verbo “rimembrare”, inoltre, assegna alla memoria la capacità di “tenere assieme le membra” di una persona e di una comunità, quasi che la dimenticanza comportasse lo smembramento, la divisione e la dispersione delle parti di un corpo vivo.

Generalmente, nella lunga vicenda umana, la memoria ha goduto una reputazione migliore rispetto alla dimenticanza che toglie e consuma quanto il ricordo tenta di custodire con cura. Eppure nessuna delle due è chiara e distinta. Entrambe hanno ombre e spigoli. Certo, senza memoria risultano impossibili la fedeltà e la gratitudine. Tuttavia essa è anche la materia prima del rancore, del risentimento, della vendetta, di tutto quanto impedisce l’avvio di un processo di riconciliazione. Non solo: l’ossessione di “farsi ricordare” – caratteristica dei dannati

dell’inferno dantesco, assillati dall’urgenza di non essere dimenticati dai vivi – sembra la mossa maldestra per ottenere una “risurrezione fai da te”, un vano tentativo di vincere la morte. D’altro canto, se è vero che la dimenticanza è la radice dell’infedeltà, dell’ingratitudine e della superficialità, essa è pure lo spunto iniziale del perdono, come mostra la parabola che oggi Gesù ci racconta. Se l’oblio non stende delicatamente il suo velo sulle offese ricevute, difficilmente si comincerà a perdonare. Inoltre “la dimenticanza di sé”, quella qualità spirituale che un discepolo di Cristo prende come suo compito personale per potere inseguire il Divino Maestro, conferisce al nostro cuore la libertà, l’amplitudine d’amore, il distacco dei propri interessi per mettere in primo luogo la volontà di Dio e non la nostra.

Insomma: memoria e dimenticanza concorrono entrambe al bene degli uomini e delle donne. Separandole, diventano dannose e fanno ammalare l’anima. Perciò, con genuino colpo di genio, Dante colloca al compimento del proprio cammino di conversione, sulla vetta del Purgatorio, sia il fiume Lete che porta le acque della dimenticanza, sia l’Eunoè, il torrente della memoria. Per il Poeta si tratta di due rivi che nascono dalla medesima sorgente e da essa se ne dipartono come «amici» (Purgatorio, XXXIII,114). Nel Lete il Fiorentino s’immerge completamente (Purgatorio, XXXI, 94-96) e dall’altro torrente beve (Purgatorio, XXXIII, 138) o, forse, anche in esso si bagna. Sembra un doppio battesimo dentro le acque dell’oblio e della memoria, senza il quale è impossibile passare al Paradiso. Grazie al Lete è dimenticato tutto il male commesso e il male subìto. L’Eunoè permette di ricordare tutto il bene compiuto e il bene ricevuto. Alla fine rimane solo il bene.

Con questi spunti ritorniamo alla pagina del Vangelo. Di fatto, la cifra spropositata che il servo deve al re non è restituibile. Si tratta di un debito dalle proporzioni quasi inimmaginabili. La condanna è ormai certa: il servo sarà venduto e in tal modo la corona verrà risarcita. Ma le suppliche del poveretto muovono a pietà il sovrano che subito condona e dimentica il debito. L’amnesia del signore diviene amnistia a favore del servo. Il racconto prosegue sottolineando che la scena successiva ha luogo

immediatamente dopo l’incontro tra il servo e il re: «appena uscito», il servo incontra un collega, «un altro servo come lui». È pressoché ripetuta la prima scena, ma il servo che allora era nella posizione di debitore adesso si arrocca nel ruolo di creditore. La somma dovutagli dal socio non è poca cosa, ma irrisoria rispetto a quanto spettava al re. Egli ricorda perfettamente quanto gli è dovuto e, vista l’impossibilità di restituire da parte del debitore, lo fa gettare in carcere. È un paradosso: lo fa rinchiudere proprio nel luogo dove al collega sarà impossibile trovare il denaro per saldare il debito. Il primo servo costringe il secondo a restare debitore e, così facendo, la memoria del credito permane incancellabile.

Ciò che muove la parabola di Gesù è l’articolazione tra memoria e oblio, il loro intreccio. Il re dimentica il debito del primo servo e così lo perdona. Il servo dimentica immediatamente che la propria insolvenza è stata scordata, ma non intende obliare il debito del collega (forse perché altrimenti perderebbe la propria posizione di creditore?). Qualora egli avesse ricordato la dimenticanza del re, avrebbe dimenticato il debito dell’altro. La dimenticanza, segno della bontà del re, si camuffa in ingratitudine e cattiveria nel servo. Se questi avesse ricordato la bontà ricevuta, la sua memoria non sarebbe divenuta ossessiva e chiusa. Tenute insieme, memoria e dimenticanza sono le condizioni di legami giusti ed effettivamente evangelici; divise divengono mortificanti e inutili, come passioni tristi.

La pagina evangelica ci offre per questo l’opportunità di domandarci: Qual è il portamento della mia memoria? Come ricordo? E cosa ricordo? Qual è l’andatura della mia dimenticanza? Mi è facile o difficile cancellare la memoria di debiti e offese? Percorro un cammino spirituale di trasformazione?

Scrivendo la Commedia, Dante vuole fissare nella memoria propria e altrui quanto ha visto. Eppure, all’inizio del Paradiso, avverte il lettore: avvicinandosi al traguardo di ogni desiderio, l’intelletto sprofonda a tal punto «che dietro la memoria non può ire» (Paradiso, I, 7-9), la memoria non regge il passo e deve mollare la presa. La penna dell’Alighieri favorisce l’amicizia di memoria e oblio; anche per questa ragione il suo gesto è pienamente poetico e squisitamente evangelico.

Anche per questo, Dante è poeta e profeta, capace di parlare al nostro presente storico. È un necessario maestro della parola umana e della parola di Dio, di cristianesimo e di umanità. Che questo centenario che stiamo incominciando ci permetta di ascoltarlo, portandolo all’attualità delle nostre vite.